LA
COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE
di LUIGI D’ELIA
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La scena del gruppo allargato o mediano
Il gruppo allargato di una CT corrisponde, in termini strutturali (non
in termini di modello terapeutico), alla definizione di De Maré
relativa al gruppo mediano costituito da un numero di componenti
compreso circa tra 20-40, considerando la co-presenza nel campo mentale
di ospiti e operatori; una struttura antropologica di base intermedia
tra la famiglia e la società. Lo studio delle dinamiche del gruppo
intermedio è appena agli inizi.
Il gruppo allargato utilizza, secondo De Maré, lo strumento della
“cultura” intesa “come risultato della contrapposizione tra
l’individuo e la struttura sociale”, il suo “testo” è il
dialogo con una realtà che è pero “aperta alla negoziazione”, il
suo campo di azione e di esplorazione è il conscio. Nel gruppo
allargato della CT ci si trova però di fronte massimamente alla qualità
propria dell’organizzazione con il funzionamento tipico del gruppo di
lavoro con i suoi obiettivi, i suoi tempi scanditi, le sue attribuzione
di significato, le sue gerarchie (ed in questo in particolare differisce
dal gruppo mediano terapeutico: ci riferiamo alla copresenza in CT di 2
gruppi, quello degli ospiti e quello degli operatori). Il gruppo
allargato della CT diventa ben presto un universo microculturale con le
proprie leggi e categorizzazioni interne, talvolta alternative o in
contrasto con la macrocultura sociale (se non altro per il clima di
tolleranza e democrazia che vi è spesso in una CT e che “fuori” è
ben più difficile trovare), talora invece contigue e osmotiche. Tale
microcultura “terapeutica”, sviluppa l’appartenenza dei propri
membri all’interno di un sistema di significazioni e di
rappresentazioni mediando attraverso il dialogo e lo spirito di ricerca
che le sono propri, e consentendo all’ospite di CT di modificare i
propri codici sub-culturali familiari e sociali. La terapia comunitaria
nel gruppo allargato corrisponde inoltre al continuo sforzo dell’équipe
di preservare il funzionamento tipico del “gruppo di lavoro” che
incide sul livello conscio e sulle potenzialità di apprendimento (come
ad es. apprendere ad avere un proprio posto, un proprio spazio di
parola, propri diritti e doveri) degli individui. La CT deve saper
promuovere quella che De Maré chiama “dimensione laterale” od
orizzontale, tipica del linguaggio del gruppo allargato, quella
“cultura del dialogo” che non appartiene agli stadi narcisistici dei
pazienti gravi: la dimensione laterale, by-passando quella verticale e
gerarchica, accede al confronto “realistico” multipersonale che De
Maré definisce come “setting pre-politico”, un setting cioè che è
transizionale tra quello familiocentrico e quello sociale a metà strada
tra parentela e amicizia, tra consanguineità e società. Il lavoro
terapeutico delle CT a livello del gruppo mediano è quello senz’altro
meno esplorato, ma allo stesso tempo è probabilmente il lavoro più
specifico poiché è su questo livello che si dispiegano i percorsi
dell’appartenenza qui intesi come percorsi che attivano nuovi temi
culturali che sono in grado di trasformarsi in eventi simbolici per
l’ospite di CT. Normalmente questo “fattore terapeutico” agisce
(quando agisce) in maniera implicita e latente, all’insaputa dei
curanti. Il passaggio di un ospite all’interno del campo mentale della
CT non si risolve certo in un’operazione meccanicistica di
“riparazione” di aspetti disfunzionali, ma si tratta di
un’esperienza che incide profondamente sulla sua identità e sulla sua
personalità. Tale incidenza trasformativa utilizza precipuamente
strumenti culturali: modalità relazionali, prassi e consuetudini
gruppali e istituzionali, nuovi stili narrativi, nuove declinazioni
simboliche della realtà, nuove gerarchie valoriali, nuove scansioni
spazio-temporali, nuovi interessi. Tutto ciò, secondo la nostra
esperienza, risulta essere più “terapeutico” di molti altri
interventi ritenuti comunemente efficaci e richiede una permanenenza
temporalmente di media durata (2-4 anni).
La scena sociale
L’area sociale è l’interfaccia mentale di tipo metacontestuale:
essa precede e contiene individui, famiglie e gruppi così come contiene
le aree duali e gruppali della mente. Nella patologia grave molto spesso
anche questa dimensione mentale è disinvestita e successivamente
vissuta come pericolosa e intollerabile: in questo caso, la dimensione
sociale “transpersonale” emerge nell’individuo e nella sua
corporeità nella sua forma panica e demoniaca, senza cioé alcuna
mediazione simbolica e culturale. Non a caso, le forme deliranti
assumono sempre degli “organizzatori sociali automatici” sottoforma
di stereotipie, personaggi, situazioni e schemi ricorrenti e
socio-culturalmente definiti: Dio, il Diavolo, il Potente,
l’Aristocratico, Il Persecutore, il Perdente, il Deviante, il Bello o
il Perfetto (il Magro), il Brutto, etc. Diciamo subito che a livello
dell’area sociale e delle sue rappresentazioni il lavoro della CT
diventa più complesso, ed il rischio di brutali semplificazioni è
sempre dietro l’angolo. Ci riferiamo in particolare alla
frequentissima burocratizzazione dell’intervento sociale e
all’interpretazione di esso nei termini di intrattenimento
ergotaerapico, o di sterile attività di “socializzazione”: in
questo caso è la psicosi (ma non la psicosi della persona sofferente,
bensì quella sociale) che vince nella misura in cui include tutta la
società e i suoi rappresentanti istituzionali nel suo delirio. Il
lavoro sociale della CT è quello di costruire le condizioni di un
apprendimento/riapprendimento sociale, e questo può avvenire soltanto
all’interno della circolarità transizionale della mente di cui la CT
si prende cura globalmente, se cioé l’esperienza di CT, nel suo
insieme, per un paziente risulterà realmente “correttiva” e
riparativa, se riuscirà a fare proprie modalità relazionali, strutture
mentali sane, se riuscirà a trovare, attraverso la CT, un luogo
(interno ed esterno) di appartenenza, d’identità, di apprendimento di
valori quali la partecipazione, la solidarietà, il dialogo,
l’amicizia, l’amore. In questo senso, la CT diventa quel mediatore
simbolopoietico e culturale che è mancato nella storia
psico-socio-patologica del paziente, un possibile ponte che congiunga
sponde in precedenza lontane. Il lavoro delle CT sull’area sociale
della mente va posto innanzitutto come un “a priori” che riguarda il
modello terapeutico e l’approccio alla gravità. Non crediamo né alla
Comunità-Famiglia alternativa alla famiglia naturale e alla società
(pur essendo questo il mandato sociale prevalente e, a volte, l’unica
strada praticabile) che taglia fuori il mondo esterno perché
persecutorio e inaccogliente, né alla Comunità-Dormitorio dove
l’enfasi dell’adattamento a tutti i costi ai criteri prestazionali
taglia fuori i bisogni di appartenenza e di costruzione d’identità
dell’individuo. La CT deve essere in grado di pensare al “dopo”
dei propri pazienti già dal loro ingresso, in termini realistici e
soprattutto lo dovrà fare con altri soggetti (famiglia, altre
istituzioni), ma lo dovrà fare pensando in primo luogo alla propria
collocazione socio-culturale: se è in grado di dialogare con altre
istituzioni o di attivare un dialogo laddove esso sia carente; se è in
grado di stabilire legami e alleanze territoriali significativi e
duraturi; se è in grado di coinvolgere le famiglie nei progetti
terapeutici; se è in grado di immaginare la vita dei propri ospiti al
di fuori del proprio dominio; se è in grado di concepire se stessa come
una realtà osmotica i cui confini sono permeabili (la CT che occupa
l’esterno e l’esterno che occupa la CT); se è in grado di preparare
l’uscita dei pazienti; se è in grado di partecipare al dibattito
scientifico-culturale sulla psicosi; se in grado, infine, di formare i
propri operatori allo specifico lavoro di reinserimento sociale. Va
detto, ad onor del vero, che la storia “antiistituzionale” italiana
che ha prodotto le rare e insufficienti esperienze comunitarie, ha posto
queste ultime in una posizione di marginalità e di contrapposizione,
nonché di minoranza. Questo, fino ad oggi, ha reso la vita delle CT,
pubbliche e private (privato-sociale), davvero molto difficile, con
esiti molto spesso negativi: si ripropongono ciclicamente problemi di
disconoscimento e disconferma del lavoro svolto dalle CT relativi alla
stessa opportunità di questo tipo d’intervento; si riattivano modalità
subdole di boicottaggio “burocratico”; si rende impraticabile il
lavoro di rete e di collaborazione tra i servizi, che sembrano parlare
linguaggi del tutto differenti; si continuano ad ignorare le peculiarità
dell’intervento comunitario attraverso processi perversi di delega per
pazienti di cui “non si sa che farne”. Un’équipe di CT deve
essere pienamente consapevole di appartenere ad un tale contesto sociale
multiforme dove coesistono drammatiche contraddizioni, ambiguità e
processi di alienazione, ma dove vi possono essere enormi potenzialità
da utilizzare: basti pensare allo sviluppo delle imprese sociali e alle
innumerevoli risorse sociali di umanità e di mezzi a cui la stessa CT
può accedere se soltanto accogliesse tali contraddizioni come uno degli
aspetti del lavoro con la “psicosi”. In questo senso, la cultura
istituzionale, incarnata da responsabili e operatori e dalla loro
capacità organizzativa ma anche dalla loro fantasia, diventa quel
fattore discriminante che consente all’ospite di CT di “praticare”
il mondo sociale senza grandi tensioni e senza troppe sollecitazioni
alla competizione.
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