LA
COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE
di LUIGI D’ELIA
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· la cultura istituzionale: miti fondativi, storie, antropologie,
declinazioni organizzative;
· la formazione dell’équipe: non intesa qui soltanto come apparato
di conoscenze tecniche o di titoli accademici (pur necessari), quanto
piuttosto come capacità dell’équipe di essere coesa e di costituire
un campo mentale autenticamente “terapeutico”, di avere un pensiero
clinico abbastanza condiviso, di realizzare processi d’integrazione,
di assumersi la responsabilità della presa in carico, di essere capace
di processi osmotici (relazionali, affettivi e produttivi) con la
comunità allargata e con la comunità scientifica;
· i processi relativi all’appartenenza: che riguardano sia gli ospiti
che gli operatori e che definiscono i percorsi dell’identità: ci
riferiamo alla multiappartenenza di ciascuno di noi attraverso la
famiglia, le istituzioni, i ruoli lavorativi, i gruppi sociali ristretti
e allargati. L’attraversamento dell’ospite nella CT e nel suo
sistema spazio-temporale, simbolopoietico e valoriale diventa in questa
ottica non un fattore incidentale e contingente, ma il punto centrale
della terapia;
· la quotidianità interstiziale e il clima terapeutico della CT:
l’universo inesplorato di fatti, interazioni, relazioni dei momenti
non strutturati, che come afferma Roussillon, godono dello statuto di
“extraterritorialità” rispetto ai momenti organizzativi codificati,
e che noi ben sappiamo quanto incida sul percorso terapeutico di ogni
ospite. Questo fattore è a corollario del precedente poiché se
assumiamo l’appartenenza al campo mentale della CT come elemento
trasformativo, l’osservazione e l’attenzione sul clima quotidiano
della CT e i movimenti dell’ospite al suo interno nelle situazioni più
informali, diventano i principali indicatori di efficienza del lavoro
terapeutico della CT.
L’analisi del campo mentale di una CT richiederebbe dunque l’analisi
approfondita di ciascuno di questi punti (e probabilmente di altri
ancora) che qui vengono soltanto accennati, secondo metodi anche molto
lontani dalla ricerca in psicoterapia e in psicologia, e forse più
vicini alla ricerca antropologica.
LA QUOTIDIANITA'
La principale e più evidente differenza tra la situazione di CT ed ogni
altra risiede nell’inclusione, all’interno del setting di CT, della
vita quotidiana del paziente e della partecipazione ad essa da parte di
un’équipe polivalente, tanto da fare affermare a qualcuno che il
setting di CT non è altro che la sua quotidianità. La quotidianità in
CT non può ridursi né nello spontaneismo, né nella “tecnica” o
nella bontà organizzativa, bensì essa si fonda sul continuo
ripensamento dei significati che attraversano i mille fatti e le mille
interazioni in CT in ogni sua giornata, sulle infinite riflessioni che
gli operatori e gli ospiti condividono, su ogni segmento della vita di
CT, sulla capacità che l’intero gruppo di CT dimostra nell’essere
flessibile, dinamico, evolutivo (in grado cioè di migliorare i propri
standard di vita), ma anche nell’essere tollerante, contenitivo,
riparativo, fiducioso. È possibile definire tutto questo come la
matrice terapeutica della convivenza che è legata ai fattori aspecifici
precedentemente citati. La CT, inoltre deve poter essere un ambiente
domestico, vivibile, non medicalizzato, ma anche contenitivo e
protettivo, con determinate regole di vita che vengono settimanalmente
discusse da tutti nello spazio dell’assemblea. Il quotidiano di CT
sfugge facilmente sia all’osservazione che all’attenzione
“scientifica”: ciò che accade nei momenti non strutturati, nelle a
volte lunghissime giornate, nei momenti di noia o viceversa di tensione,
nei vasti meandri interstiziali che riserva un qualsiasi giorno in CT,
con i suoi mille scambi e mille situazioni, è il pane quotidiano del
lavoro di CT: solo l’attitudine transizionale dell’équipe,
l’esercizio condiviso, allo scambio, all’alternanza continua tra
illusione(speranza)-delusione-disillusione, nonchè la capacità di
lettura e attribuzione di senso di ogni scambio, costituirà
quell’humus naturale che ontogeneticamente precede la capacità
simbolica. Esiste una psicopatologia dell’esperienza transizionale che
è quella che essenzialmente ci presentano i nostri pazienti di CT e per
la quale l’individuo mostra un radicale disinteresse per lo scambio,
un’incapacità di preoccupazione, una mancanza o carenza di capacità
ludica, un’incapacità di lavoro e di continuità nelle attività, a
talora anche una piattezza e banalità di pensiero e argomentazione.
Solo nel contatto quotidiano con la psicosi è possibile osservarla,
pensarla e ripensarla, diversamente dall’ineluttabilità
dell’impotenza verso cui continuamente ci sospinge. Ma perchè ciò
sia possibile occorrono dei “sistemi di sicurezza”, degli
accorgimenti tecnico-organizzativi che consentano agli operatori di
entrare ed uscire continuamente dalle relazioni, dal clima psicotizzante
della CT, per potersi conquistare quella “giusta distanza” che
faccia salva la “funzione pensante” e rappresentativa presente nel
campo mentale: dei “doppi livelli” o livelli multipli di
riflessione, come le supervisioni, le riunioni di équipe, i confronti
con altre esperienze ed altre realtà, etc. L’organizzazione del
quotidiano di una CT allora non può che essere la rappresentazione
sulla scena quotidiana di una mente
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