LA
COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE
di LUIGI D’ELIA
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INTERVENTO RESIDENZIALE E TIPOLOGIA DI UTENZA
Fatte queste doverose premesse, voglio introdurre il tema dello
specifico di CT, partendo da un tentativo di definizione di contesto. Ma
alle domande: che cosa è una Comunità Terapeutica, come e perchè
“funziona”, non è certo facile rispondere: mancano infatti i
criteri e i dati relativi ai processi di valutazione e validazione dei
metodi, strategie, principi efficienti, che in modi talora diversissimi
hanno caratterizzato questo tipo d’intervento. Possiamo però
cominciare col dire che l’intervento comunitario è innanzitutto un
intervento che utilizza la residenzialità prolungata (temporanea e di
medio termine) dell’ospite a fini terapeutici; esso quindi si
caratterizza in primo luogo per:
1- La continuità del rapporto paziente-CT: la presa in carico della
persona e dei suoi bisogni fondato sulla relazione prolungata nel tempo
e intensiva nel quotidiano, all’interno di una situazione gruppale
permanente.
2- La discontinuità del rapporto paziente-famiglia: il temporaneo
allontanamento (ma non assoluto) dalla famiglia, nei casi in cui questo
sia reso necessario per il trattamento.
(Torricelli F.D., 1997)
Occorre subito precisare che tali modalità vanno a definire un campo
d’azione delimitato, nonchè un’utenza ristretta: la CT non è certo
la panacea o la risposta definitiva al problema della sofferenza mentale
(Main), ma è una delle tante risposte possibili all’interno di una
(immaginabile) rete articolata e differenziata di servizi alla persona,
con obiettivi e metodi peculiari che ne delineano la specificità. Ed
ancora, restringendo l’indagine all’interno delle possibili risposte
di tipo “comunitario-residenziale”, possono coesistere diverse
tipologie di strutture per differenti tipologie di utenza con differenti
bisogni In realtà la gran parte delle CT lavorano su un’utenza di
pazienti “cronici” o su un’utenza mista, e sembrerebbe che siano
davvero rare le esperienze comunitarie che definiscano una precisa
scelta di campo rispetto alla selezione degli ospiti. Questa
insufficiente definizione non aiuta certo, a mio parere, né le CT a
focalizzare il proprio specifico, né i pazienti ad orientarsi verso una
CT anziché un’altra, per cui accade ancora troppo spesso che le
domande terapeutiche si schiaccino drammaticamente sulle poche offerte a
disposizione, spesso ricercate disperatamente, e a volte inadeguate. La
nostra esperienza ci suggerisce criteri selettivi per i quali l’uso
dell’intervento residenziale, temporaneo ed intensivo, sia soprattutto
finalizzato in senso preventivo (di tipo secondario o terziario), ma
anche terapeutico, per un’utenza in grado di usufruire realmente di
un’offerta terapeutico-riabilitativa attivante e trasformativa. Della
CT pare giovarsi, con ottimi risultati, soprattutto quella parte di
pazienti psicotici giovani “con potenzialità evolutive” (Gazale-Stuflesser-Vigorelli),
con i quali sia possibile costruire un’alleanza di lavoro e una
continuità terapeutica sufficiente che sia propedeutica per un lavoro
sempre più mirato di ricostruzione, ristorificazione e
abilitazione-riabilitazione di capacità personali e sociali, e per i
quali è consigliabile un distacco temporaneo dal contesto familiare,
pur coinvolgendo la stessa famiglia nel progetto terapeutico con modalità
differenti. Quest’ordine di precisazioni non va a definire con
esattezza categorie nosologiche, quanto piuttosto una variegata fascia
di utenza per la quale gli aspetti di cronicità, gravità, fattori
familiari, fattori longitudinali, aspetti dell’esordio e del decorso,
e aspetti della sintomatologia (Pao), consentano di svolgere un lavoro
basato sulla relazione e sulla partecipazione quotidiana ad un contesto
gruppale. Va fatta perciò un’analisi della compatibilità
dell’intervento comunitario che varierà a seconda degli obiettivi e
dei modelli terapeutici tipici di ogni tipologia comunitaria, ma
soprattutto occorre valutare, attraverso meticolosi processi
diagnostici, a quali bisogni evolutivi s’intende tentare di
rispondere, quali progetti è possibile attivare e a quali rischi di
neo-istituzionalizzazione si può andare incontro.
LA COMUNITA' “PSICOTERAPEUTICA” E I COSIDDETTI “FATTORI
TERAPEUTICI”
Una terza definizione di contesto riguarda la “qualità terapeutica”
della Comunità per la quale essa è “Terapeutica” per:
3- L’orientamento psicoterapeutico: ovverossia, l’équipe
appartenente alla CT è portatrice di modelli terapeutici, impliciti ed
espliciti, è in formazione permanente, concepisce se stessa ed opera
come “parte terapeutica” del contesto, è in grado di allestire
ambienti (fisici e psichici) idonei dei quali conosce e stabilisce le
coordinate organizzative e affettive (setting) all’interno di una
(relativa) cornice previsionale di percorso.
L’orientamento psicoterapeutico di una CT, aggiungiamo, è dato anche
dalla sua particolare “natura istituzionale”, dalla capacità cioé
dei suoi artefici di revisionare i propri presupposti storico-fondativi
e modellistici all’interno di una continua dialettica
conservazione/cambiamento: tale caratteristica ne fa un’istituzione
“fluida” e flessibile, capace cioé di allestire situazioni curative
“istituenti” piuttosto che “istituite”.
I principi sui quali si può fondare l’orientamento psicoterapeutico
della CT possono essere i più disparati, e corrispondono in genere a
quelli prevalenti nella cultura psicoterapeutica in ciascun momento
storico. Occorre segnalare però, a questo punto, il rischio di
giustapposizione di modelli teorico-pratici nati e sviluppati in
contesti del tutto differenti, e mutuati ed applicati nella “clinica
comunitaria”, in un contesto cioè che, per la sua complessa
specificità, non può essere assimilato ad alcun altro. Questa
operazione può talora condurre a vere e proprie “derive
metodologiche” se non a drammatiche distorsioni mistificanti per le
quali la CT diventa un contenitore vuoto dentro cui si agiscono
rigidamente e si sommano gli interventi “terapeutici” senza alcuna
nozione di campo. Si rende necessaria perciò una maggiore riflessione
sulle caratteristiche del lavoro di CT, su cosa in particolare lo
differenzia dagli altri setting terapeutici, su quali sono i dati
salienti e i fattori di efficacia.
La CT dunque è una realtà del tutto a sé stante che richiede una
profonda revisione teorico-tecnica e un radicale cambio di rotta
rispetto ad altri contesti terapeutici, se non altro perché in CT la
multidisciplinarietà e l’integrazione degli interventi s’impone
come metodo. Forse allora occorrerebbe porre l’attenzione maggiormente
sul “campo mentale” di una CT, sulla sua costituzione e fondazione.
Questo cambiamento di focus c’indurrebbe a considerare la
“terapeuticità” di una CT in massima parte nella sua storia,
nell’aspecificità degli elementi fondativi, nel suo particolare
“clima terapeutico” piuttosto che nella sua organizzazione o nel suo
modello teorico di riferimento. Tale cambiamento di ottica corrisponde
ad affermare, in un certo senso ed in maniera anche piuttosto esplicita,
coordinate nuove o, se vogliamo, un differente “sistema di valori”
rispetto a ciò che comunemente viene definito come “fattore
terapeutico”. Siamo infatti convinti che in una CT ciò che in
psicoterapia generalmente viene considerato “aspecifico” assuma
quasi paradossalmente una sua cogente e spiccata “specificità”
diventando assolutamente determinante nel destino di quella CT (e dei
suoi ospiti); ci riferiamo ad esempio a fattori di complessa
analizzabilità quali:
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