LA
COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE
di LUIGI D’ELIA
INTRODUZIONE
Le esperienze delle Comunità Terapeutiche per il disagio psichico nascono
e si sviluppano nell’alveo della complessa trasformazione scientifica e
storico-culturale che dal dopoguerra ad oggi ha caratterizzato
l’intervento sulla gravità e le emergenze psichiatriche in genere. Fu
l’ultima guerra, negli anni ‘40, con i suoi disastri e i suoi
contraccolpi psicologici, a far comprendere a pionieri quali Bion, Foulkes
e Main in Inghilterra, Sivadon, Tosquelles e Oury in Francia, non solo
dell’opportunità economico-strategica, ma soprattutto dell’opportunità
clinica dell’intervento gruppale e della trasformazione di reparti
ospedalieri in comunità terapeutiche. Non sembra affatto una casualità
l’associazione storica guerra-gruppo-comunità terapeutica: il
conflitto, la crisi collettiva delle coscienze, la possibilità di un
olocausto totale, le ideologie che come fantasmi primordiali prendono vita
e trascinano le folle, la minaccia alla democrazia; tutto ciò pare abbia
attivato esattamente le tendenze opposte della cooperazione, della
circolazione fruttuosa delle idee e degli affetti, di leadership non
oppressive, che facilitano la crescita e l’individuazione delle risorse
individuali al servizio del gruppo e viceversa (quasi come se fosse stata
necessaria una guerra per ricordarci il potenziale distruttivo delle folle
e le effettive potenzialità dei gruppi umani). Un mito di fondazione,
quello dei gruppi terapeutici e delle CT, che trae dal caos -
dall’equazione folla=follia - la sua forza ordinatrice, in un ideale
passaggio dal gruppo acefalo e distruttivo al gruppo terapeutico. In
ambito filosofico-scientifico, la storia di questa trasformazione di
orientamenti, di metodologie, ma anche di setting e di tecniche, è anche
la storia, se vogliamo, di un ideale percorso della psicoterapia da
un’humus epistemologico “tradizionale” cusalistico-lineare e
deterministico, ad un’epistemologia della complessità per la quale sono
valide nozioni come pluralismo evolutivo, circolarità, molteplicità,
campo probabilistico (Aparo-Casonato-Vigorelli; Lo Verso); ma è anche la
storia, nella clinica, della progressiva inclusione di elementi del
contesto di appartenenza del paziente come ulteriori e successivi
arricchimenti ai setting tradizionali. Con la psicosi e con la gravità in
genere, è diventato oggi imprescindibile l’allargamento
dell’orizzonte d’azione della psicoterapia e dei setting che essa
allestisce. Occorre cioé andare sempre più incontro alla realtà
psicopatologica della persona intesa non più solo come una faccenda
individuale e strutturale, ma anche come un problema relativo alle reti
relazionali più prossime all’individuo (famiglia, gruppi di
riferimento) e, ancora, al contesto più allargato della socio-cultura di
appartenenza della persona. Ed infatti, sembra sempre meno giustificabile
l’approccio alla psicosi e ai disturbi gravi attraverso una
“monocultura” dell’intervento, o attraverso l’utilizzo di
strumenti terapeutici univoci e modellisticamente uniformi. Non solo
dunque tendono ad integrarsi i differenti approcci e i vertici di
osservazione anche inizialmente più lontani, ma si tende sempre più a
superare le oramai obsolete dicotomie:
riabilitativo/terapeutico,contenitivo/interpretativo, supportivo/espressivo,
intrapsichico/interpersonale, individuale/gruppale, nella direzione di
un’ottica integrata e globale. L’idea di setting contenuta in questo
articolo (setting inteso come campo mentale) vuole essere un’idea
essenzialmente antropologica. Il campo mentale è dunque qui inteso come
una faccenda socio-culturale, cioè come un ambiente fisico-umano che con
le sue caratteristiche e la sua storia è in grado o meno di contenere il
disagio psichico e di “scioglierlo”. Esiste una sensibile differenza
relativa al decorso delle patologie mentali nelle diverse culture a fronte
di una sostanziale parità di prevalenza, a parità cioè di persone che
mediamente si ammalano di psicosi in tutto il mondo. Ciò che cambia, a
seconda della collocazione etno-geofrafica, è dunque la capacità di
certe culture (parliamo di paesi del terzo mondo) di “sciogliere” la
malattia mentale e di assorbirne i contraccolpi al suo interno;
all’interno cioè di una trama di significati, codici e rappresentazioni
socio-culturali che ne diluiscono gli effetti devastanti. Qui da noi, in
occidente, credo che la situazione sia alquanto diversa: siamo costretti a
tamponare il problema della malattia mentale utilizzando metodi,
rappresentazioni e strategie frammentari che segnalano e attestano la
fatica della nostra cultura ad inquadrare e tollerare la follia. E i
risultati si vedono (nonostante i farmaci). La CT residenziale assume
forse allora un’ulteriorità di senso alla luce di queste considerazioni
che c’incoraggia a proseguire la ricerca provando però a guardare in
altre direzioni. L’ambiente di CT diventa allora un laboratorio a tutto
campo di ricerca sulla condizione umana e sul dolore e non più o non solo
una “psicoterapia” alternativa.
continua
>>>
ritorna alla homepage <<<
Copyright
© CENTRO ITALIANO
SVILUPPO PSICOLOGIA cod. fisc. 96241380581
Note legali - Si
prega di leggerle accuratamente prima di utilizzare il sito
|