Le Principali Teorie del Lutto e
la Relazione Etica A
cura della Dott.ssa Laura Messina Le Situazioni Particolari
di Lutto e la Relazione “Etica” tra chi Muore e chi Resta Secondo
B. Raphael, il problema del confronto con la propria morte si fa sempre più
evidente man mano che si diventa vecchi e si passa attraverso le perdite
che inevitabilmente la vita porta con sé. Dal ché si può giungere a
dire ad un certo punto «Sono pronto a morire». Se
ci si riferisce poi a coloro che anche nelle età senili godono di una
discreta salute, si deve far riferimento a due fattori massimamente
importanti: una sorta di cruda forma di calcolo basato sui dati dello
stato di salute e su quanti dei coetanei sono ancora in vita, che il
vecchio fa cercando di valutare la sua attesa di vita, e una revisione
della propria vita con i suoi aspetti positivi e negativi che sembra avere
molto in comune con i processi del lutto e che, in quanto tale,
rappresenta almeno in parte un lutto anticipatorio per la vita e il
proprio sé che dovranno essere lasciati con la morte. Può essere tramite
questo lutto per ciò che si è perso di sé che l'individuo risolve
questa crisi finale dello sviluppo personale, giungendo a ciò che Erikson
chiama “senso dell'integrità dell'io” invece che alla
“disperazione” per la prossima perdita di sé. È
intuitivo pensare che chi ha spinto la propria maturazione personale fino
ad integrare nella sua vita la morte e non averne paura, o chi è
soddisfatto della sua vita, lascia agli altri un minor dolore e minori
problemi nell'elaborazione del lutto, perché lascia loro il messaggio che
si può morire bene cioè soddisfatti della vita che si è avuta e maturi
al punto da accettare la morte. Si
potrebbe allora pensare che il modo di sanare la contraddizione che
abbiamo evidenziato tra il morire come “compito” di rendere sensata la
propria morte (per sé e per gli altri) e il diritto di essere consolati
per la perdita della propria vita, stia proprio nell'aiutare chi muore a
fare il lutto per la propria vita, a raggiungere l'ultimo stadio della
maturazione personale che consiste nell'accettare la morte. In
quest'ottica la consolazione è possibile solo se il morente arriva alla
fine della sua vita con il bagaglio di esperienze e con la maturità di
chi ha avuto una vita soddisfacente e piena di realizzazioni e di affetti.
Se è così egli stesso si assumerà spontaneamente la responsabilità di
pensare a coloro che restano e si preoccuperà di lasciarli bene, cioè si
sentirà affidato alla morte. Affidarsi
alla morte significa assumersi di fronte ad essa la propria responsabilità,
cioè continuare a fare, accettandone tutte le conseguenze, proprio ciò
che da sempre facciamo: desiderare che sia giusta con noi e con i nostri
cari, e continuare a desiderarlo anche quando, essendo essa arrivata,
dobbiamo constatare che non siamo riusciti a determinarla (cioè a
renderla giusta). In
sostanza la morte ci coglie sempre impreparati, perciò è sempre
prematura ed ingiusta, ma noi possiamo continuare a desiderare che così
non sia fino all'ultimo istante. Non
c'è amore che possa vincere la morte, siamo soli di fronte ad essa, ma
proprio per questo nessuno può morire al posto nostro, a nessuno cioè
possiamo cedere la responsabilità di morire. E
se mi assumo fino in fondo questa responsabilità, per quanto
ingiusta sia la mia morte, finché c'è al mondo qualcuno che mi ama
l'ingiustizia può essere “ridotta”, mentre nessuno potrà continuare
ad amarmi se non mi sono assunto la responsabilità di morire, cioè se
muoio dominato dalla gelosia per chi resta in vita, gelosia propria di chi
avrebbe voluto che qualcun altro morisse per lui. Insomma,
continuando a desiderare una morte giusta fino all'ultimo istante io
riesco a non interrompere completamente il filo che mi lega a coloro che
restano. Comprendo che la vita non cessa con la fine della mia vita, sicché
so che potrete, se vorrete, continuare ad amarmi e desiderarmi anche
quando non ci sarò più, non facendomi rivivere (che è impossibile) ma
continuando a portare avanti in voi, con la vostra vita, attraverso i
vostri desideri, i miei desideri. Possiamo
ora ritornare alla contraddizione iniziale e dire che essa è tale se chi
muore non si assume la responsabilità di morire, se non si affida gli
altri nel morire. Solo
se di fronte alla morte mi assumo le mie responsabilità (nessuno può
morire al posto mio), e cioè se non arrivo a pretendere che la mia vita
valga di più di quella degli altri che amo, solo allora posso sperare che
gli altri continuino a rappresentare il mio desiderio di una morte giusta
e difendermi dall'ingiustizia che morendo ho subìto. Si può capire da
quanto detto che il modo di morire è importante per il successivo
processo del lutto in quanto questo modo si basa sul rapporto tra l'Io e
gli altri. Essere
in contatto significa non investire l'altro per annullare la sua alterità
e neppure sopprimermi nell'altro. E la situazione del morire è proprio
una situazione in cui si rischia di perdere il contatto. Infatti: io posso
investire l'altro per annullare la sua alterità quando morendo cerco di
farlo morire con me o al mio posto; oppure posso sopprimermi nell'altro se
morendo non gli lascio niente di me, come quando per non assumermi la
responsabilità del morire cerco di morire “nel sonno”. Ovviamente
anche l'altro può cercare di annullare la mia alterità sedandomi o
coltivando le mie illusioni di mortalità. La conclusione che si può
trarre è la seguente: lo svolgimento e l'esito del lutto per chi resta
dipendono dallo svolgimento e dall'esito del lutto anticipatorio del
morente per la propria morte; lo svolgimento e l'esito del lutto
anticipatorio del morente e del lutto anticipatorio dei partenti si
influenzano reciprocamente; lo svolgimento e l'esito del lutto in generale
dipendono dal rapporto tra chi muore gli altri; il rapporto tra chi muore
gli altri può essere analizzato secondo il criterio del contatto; i lutti
possono essere differenziati a seconda della ricerca o del rifiuto del
contatto nei rapporti interpersonali dei contraenti particolari, cioè a
seconda del modo in cui si svolge la vicenda della distribuzione delle
responsabilità tra chi muore e chi resta. Le
Principali Teorie del Lutto e l'Etica dei Rapporti Interpersonali Nell'articolo
Lutto e malinconia Freud indica le sue principali convinzioni sul
lutto e sulla differenza tra lutto normale e lutto patologico. Il
lutto, dice Freud, è la reazione alla perdita di una persona umana o di
un'astrazione che ne ha preso il posto (la patria, ad esempio, o la libertà
o un ideale...). Il lutto induce l'Io a rinunciare all'oggetto
dichiarandolo morto e offrendo all'Io, in cambio di questa rinuncia, il
premio di restare in vita. Sembra
di capire che il processo, per Freud, sia pressapoco il seguente: il
dolore per la perdita subita induce da un lato un sovrainvestimento
dell'oggetto d'amore perduto, e dall'altro un rifiuto della perdita tanto
profondo da determinare il tentativo di vincerla allucinatoriamente. Se
ora l'esame di realtà ci induce a farci dichiarare morti i cari che
abbiamo perso, diventa chiaro che continuare ad amarli significa
continuare a soffrire rischiando di morire a nostra volta. Sentiamo allora
una sorta di ambivalenza nei confronti di chi ci ha lasciato. Cominciamo a
capire che restare legati a chi non c'è più significa continuare ad
amare loro e a distruggere noi stessi. Così il legame che ci unisce ai
nostri morti si allenta e finiamo col rinunciare all'oggetto d'amore
rendendoci disponibili ad altri rapporti, cosa che ci fa adire all'unico
premio che da tale rinuncia può derivare, e cioè il restare in vita e
continuare a vivere. Ora,
secondo Freud, se i processi del lutto restano inconsci si può
determinare la situazione della “malinconia”. In questi casi il
rapporto con l'oggetto d'amore corrisponde al tipo narcisistico di scelta
oggettuale. Significa che se io amo l'altro narcisisticamente (cioè più
per amare me stesso), sarò ambivalente nei confronti di colui che amo
(vorrei essere autosufficiente nell'amore ma constato che ho bisogno di
chi mi ama); e tale ambivalenza dovrà essere rimossa se non voglio
mettere in pericolo la relazione e non voglio essere troppo angosciato.
Così se amo narcisisticamente, quando l'altro mi lascerà e morirà io
farò molta meno fatica a staccarmi da lui perché non ero legato a lui ma
lo legavo a me; e tornerò ad amarmi da me (ovvero rivolgerò la libido
sull'Io). In
sostanza io mi “identifico” con l'oggetto d'amore perduto; ma ora mi
riesce più difficile rimuovere l'ambivalenza: ora se odio te odio me
stesso, potrei ucciderti, ma ucciderei me stesso!Da qui la malinconia, la
depressione, la tentazione al suicidio di chi reagisce malinconicamente
alla perdita. Risulterà ora evidente quanto segue:
In
sostanza è come se per chiarire la natura e lo svolgimento di un lutto
basti analizzare, attraverso l'analisi di chi resta, il modo in cui il
morente amava. È
come se la fine di un rapporto ci autorizzasse a “giudicarlo” solo in
base ai processi psichici di chi resta, e non fosse, invece, necessario
chiarire come il modo di morire del morente la propria morte e di
“vederlo” morire dei congiunti possano aver modificato il rapporto
stesso. La
psicoanalisi trascura il legame tra il rapporto d'amore e la relazione
etica, trascurando così il fatto che, nonostante il rapporto d'amore,
ciascun contraente è un essere separato, una monade, che si fa uomo
attraverso le relazioni di responsabilità, le relazioni sociali, nelle
quali il singolo essere separato trae senso della sua umanità, pur
restando una monade unica e irripetibile e non assimilabile a nessun tipo
umano storico. La
concezione freudiana del lutto è sottesa da una concezione dell'amore
secondo la quale il primo movente e l'amore di sé, inteso come pulsione
erotica, come tendenza a scaricare le tensioni sulla base del principio
del piacere. Si tratta di una concezione dell'amore inteso come relazione
di bisogno, il bisogno di scaricare le tensioni, il bisogno di
“godere”. Stando così le cose, l'altro come oggetto del bisogno
risulta, nella relazione d'amore, sempre subordinato al soggetto del
bisogno e non potremmo stabilire con esso altri rapporti che quelli
genialmente esplorati da Freud. La
psicoanalisi sembra quindi valere per un caso particolare: quello in cui
si concepisce l'amore come bisogno, indifferente all'amore altrui, poiché
si parte da una concezione della pulsione in cui se ne sopravvalutano gli
aspetti negativi (mancanza di tensione) e se ne sottovalutano gli aspetti
positivi (attesa e desiderio come possibilità del godimento e della
felicità). La
psicoanalisi ha trascurato la relazione etica, perché nella sua
antropologia l'uomo è originariamente determinato, non libero,
irresponsabile, e se diventa responsabile lo diventa per non soffrire, per
sopravvivere alla guerra di tutti contro tutti che sortirebbe come
conseguenza inevitabile dallo stato di natura se non intervenisse la
“convenienza” della civiltà. Ecco perché la psicoanalisi ha
concepito la morte o la scomparsa dell'oggetto d'amore come una mancanza o
una perdita a cui esita un processo, quello del lutto, concepito come un
cammino a ritroso rispetto a quello che ha portato nel corso dello
sviluppo allo stabilirsi delle relazioni oggettuali. Quanto
a ritroso sia questo cammino varia, per Freud, a seconda del tipo di
scelta oggettuale: nel caso di una scelta oggettuale di tipo narcisistico
l'esito del lutto può essere patologico e possiamo avere un fatto
malinconico (una depressione grave), dato che il cammino a ritroso giunge
in questo caso fino all'identificazione ambivalente con l'oggetto d'amore
propria delle prime fasi narcisistiche della scelta oggettuale; nel caso
di una scelta oggettuale matura, invece, si avrà il lutto normale, cioè
colpa, depressione rabbia potranno essere superate grazie
all'identificazione matura con le figure genitoriali concrete. Come dire
che, in fondo, se ho stabilito una relazione oggettuale matura io il caro
l'ho già “lasciato”: egli vive in me sotto forma di Super-io. In tal
caso gli autorimproveri per la morte del caro non sono rivolti a sé e
contemporaneamente (a causa dell'ambivalenza) all'altro (come sono gli
autorimproveri del “malinconico”), bensì sono rivolti a sé da parte
di una parte di sé che “rappresenta” l'altro in sé. Quindi,
quando il proprio padre morirà ci si sentirà in colpa nei confronti del
proprio padre interno e basterà rafforzare quest'ultimo (cioè
“ripararlo”) per superare il lutto, come fanno coloro che dopo la
morte del padre ne rispettano alla lettera valori che avevano fino a quel
momento osteggiato, appunto per non sentirsi più in colpa. La
psicoanalisi è quindi una “via della tomba”: bisogna decretare la
morte dello scomparso (seppellirlo nell'interiorità attraverso
l'identificazione) e impedirgli così di tornare per ottenere il premio di
restare in vita. La
teoria biologico-evoluzionistico-cognitivista di Bowlby e Parkes:
In
questo ambito ci si riferisce ai legami come a “legami di
attaccamento”. Essi si stabiliscono fin dall'infanzia sulla base di
necessità biologiche e sul modello etologico. Quando
questi legami per qualche ragione (morte, allontanamento, separazione) si
rompono, si hanno le “reazioni di attaccamento” che sono relative allo
squilibrio che la perdita comporta per l'ambiente sociale ed al tentativo
di superare questo squilibrio instaurando nuovi legami di attaccamento,
tali da determinare il formarsi di un ambiente sociale nuovo, ma
altrettanto favorevole alla soddisfazione dei bisogni del singolo e della
specie rispetto a quello che la perdita ha compromesso. Nella
teoria di Bowlby la libertà riconosciuta all'Io è ancora minore che per
la psicoanalisi. Per Bowlby l'Io è talmente determinato biologicamente
che non può neanche fare il “tentativo” psicoanalitico di andare al
di là degli “ordini” che gli dà il suo padrone più potente, l'Es,
alleandosi con un altro dei suoi padroni, la Realtà, per edificare un
mondo interno che, se lo domina (il Super- io è il terzo padrone dell'io)
è pur sempre Io. E
quando qualcosa del genere si verificasse dovremmo, secondo Bowlby,
connotare questa reazione come “anormalità” e dovremmo cercare di
scoprire cosa non ha funzionato nel complesso meccanismo che
dall'attaccamento biologicamente determinato alla madre porta al
costituirsi dell'ambiente sociale e all'adattamento che ne deriva. Come
si vede, non c'è qui alcuno spazio di scelta, c'è solo un processo che
ha i suoi “meccanismi” di funzionamento, che possono funzionare o non
funzionare a prescindere dalle scelte individuali, le quali, in questa
prospettiva etologico-cognitivista sono da considerare sempre
“determinate”. In
conclusione sembra di poter dire che per Bowlby e i suoi allievi la monade
umana è un elaboratore di informazioni al servizio di una bisognosità
biologica, la quale nel “contatto” con le altre monadi non si pone
affatto il problema del “rispetto” di sé e dell'altra monade, bensì
si pone solo il problema dell'adattamento e della soddisfazione dei
bisogni. Ne
derivano legami di “attaccamento” che si stabiliscono sulla base del
modello del rapporto madre-bambino, legami che danno luogo a qualcosa che
più che una società è un ambiente sociale. Quando
poi questi legami si perdono o sono in pericolo, l'elaboratore di
informazioni (la mente, il cervello) cerca le “ragioni” del pericolo
che il suo ambiente sociale corre e le “soluzioni” per superarlo,
correggendo gli errori fatti e cercando di prevenire quelli che si
potrebbero fare. E
arriviamo infine ad analizzare la teoria fenomenologico-esistenziale del
cordoglio. Bisogna fare riferimento in questo ambito all'opera di due
autori: De Martino e Binswanger. Cominciamo
con De Martino.
Sembra
credere, De Martino, che l'essere naturale, la monade biologica, dà un
senso alla sua esistenza edificando la Storia e la Cultura e diventando
così una “presenza”. Ed
è proprio tale “presenza”, cioè l'identità che l'individuo ha
acquistato inserendosi nella sua Storia e nella sua Cultura, che viene
messa in crisi dalla morte. Il lavoro del lutto consisterà, per
conseguenza, nel tentativo di impedire che da essere culturale-storico
qual'è l'uomo ridiventi essere di natura, e la sua esistenza torni ad
essere senza “senso”. Se,
in sintesi, per Freud la monade umana è pulsionalità aspecifica (Es) che
entra nella civiltà attraverso il tentativo mai del tutto riuscito di
costruire un Io ed edifica una società che si basa su ciò che è
dell'Altro nell'Io, il Super-io; se per Bowlby e i suoi allievi la monade
umana incontra l'Altro sulla via della soddisfazione dei bisogni e si
“attacca” a lui se il “calcolo” gli fa prevedere un adattamento
positivo, costituendo una società che sarebbe solo una società animale e
naturale più evoluta; per De Martino la monade naturale nascendo trova
una Storia e una Cultura nel rapporto con il cui ethos (e i suoi valori)
si umanizza potendo così amare ed essere libero e responsabile, potendo
cioè non essere più completamente determinato dai bisogni ma desiderare. Sembra
un modo di vedere molto simile a quello della psicoanalisi, solo più
ottimistico: il desiderio di trascendere la propria naturalità (che è la
bisognosità deterministica) ha fin dalla nascita nella storia la
possibilità di edificazione di un qualcosa, la Società e la Cultura, che
duri oltre la vita del singolo; non è attraverso un viaggio
“tremendo” per farsi una “vita interiore” che la bisognosità può
essere combattuta, ma assimilando i valori che già si trovano
“pronti” nella storia in cui si nasce. Risulta
a questo punto chiaro che la maggiore responsabilità nel superamento del
lutto ce l'hanno gli altri, come la società, come storia e come cultura.
Superare un lutto è un fatto individualeche se resta tale diventa una
malattia individuale curabile, se grazie ai riti e ai miti della società
e della cultura, si danno all'individuo in cordoglio gli strumenti
culturali per non ricadere nello stato di natura, cioè per continuare a
far parte della storia umana. Passando
poi a Binswanger, per capire la sua teoria del lutto, si deve fare
riferimento a quanto egli dice in Melanconia e Mania e alla sua
concezione dell'amore. Se
l'altro si costituisce nell'Io mediante l'atto intenzionale di rendere
co-presente, cioè mediante l'appresentazione, e se tramite
l'azione dell'appresentazione si costituisce il mondo comune, il rapporto
tra l'Io e l'altro è il rapporto tra il mio Io, che costituisce in sé
quell'Io che per lui è l'altro cioè l'alter ego, e questo alter ego.
Tutto ciò inizia quando mi rendo conto che un corpo fisico che assomiglia
al mio deve logicamente acquistare senso dal mio, è analogo al mio, è
corpo organico come il mio. Sicché
se, oltre ciò che mi appartiene in modo esclusivo, cioè la mia “vita
interiore”, io considero ciò che è co-presente, si costituisce il
mondo comune, che è l'insieme delle appresentazioni che le monadi hanno
in comune. Nella
concezione binswangeriana, in sostanza, il rapporto tra l'Io e l'altro
viene considerato un' “intersoggettività monadica”, dove abbiamo cioè
un mondo comune che non è presente in modo diretto né all'Io né
all'altro, essendo l'altro sempre altro ma sempre io
(alter-ego). Alla base di questa concezione c'è l'idea che tutto esista
come “fenomeno” della coscienza intenzionale dell'Io. Se
la costituzione intenzionale dell'io non è anormale nella sua struttura
temporale, il soggetto accetta la perdita e la supera, altrimenti ha una
reazione malinconica. Se, in altri termini, considero “avvenuta”,
“irreparabile” e ignara
delle conseguenze, la decisione di fare la gita che ha portato mio marito
alla morte, avrò una retentio (un riferimento al passato) non
inquinata dalla protentio (il riferimento al futuro) e una normale praesentatio
(cioè un normale riferimento al presente). Se
l'ego puro è ben costituito nella sua temporalità, non si avranno nel
lutto colpevolizzazioni gravi e autoaccuse, e la morte del caro col tempo
sarà superata. Nel caso, invece, che ci siano anormalità nella
costituzione dell'ego e si attribuisce un futuro a ciò che è passato
attraverso il “se non”, l'ego non può “acquetarsi” e si avrà la
reazione malinconica, reazione che, come si vede, a differenza di quanto
fa Freud, non viene esplicata a partire dallo stato d'animo che la
caratterizza (l'autoincolparsi), ma a partire da ciò che si pensa sia
alla base di questo stato d'animo, un'anormale costituzione dell'Io. Quanto
poi al rapporto tra il tipo di relazione e il processo del lutto bisogna
prendere in considerazione la concezione che Binswanger ha dell'amore. Nell'amore,
per Binswanger, l'Io e il Tu costituiscono un Noi che va oltre il tempo e
oltre lo spazio, costituiscono una dimensione di eternità e di
trasparenza. Secondo Binswanger l'amore è indipendente dall'età
cronologica; ed è quindi anche un sottrarsi alla morte che a questa è
connaturale. Ciò è testimoniato chiaramente dal fatto che il modus
amoris sopravvive alla morte fisica di uno dei due. La circostanza che
l'amato muoia non significa che muoia l'amore; l'attimo dell'amore è eternità. Due,
pertanto, sono le concezioni del lutto che si possono far risalire
all'opera di Binswanger. Abbiamo infatti due tipi di temporalità:
Possiamo
in sintesi riassumere la concezione fenomenologico esistenziale del lutto
nei due seguenti punti:
BIBLIOGRAFIA CAMPIONE
F, (2008), Ospitare il trauma. Un
modello di intervento nelle situazioni di crisi, CLUEB, Bologna. CAMPIONE
F, (2009), L’etica del morire e
l’attualità. Il caso Englaro, il caso Welby, il testamento biologico e
l’eutanasia, CLUEB, Bologna. CAMPIONE
F, (2006), Perpatire. Un nuovo verbo
per un nuovo inizio, Armando Editore, Roma. SCHUURMAN
D, (2007), Mai più come prima. Come
superare la morte di un genitore, Armando Editore, Roma. CAMPIONE
F, (2008), Rivivere. L’aiuto
psicologico nelle situazioni di crisi, CLUEB, Bologna.
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