Crimini
e apparenze
di
Paola Locci
Perché
tanta sorpresa ogni volta che la realtà contraddice le apparenze?
Dopo un fatto di cronaca, e negli ultimi tempi ce ne sono stati di
abbastanza sconvolgenti, emerge molto frequentemente la necessità di
normalizzare. Mi riferisco in particolare a quegli episodi che vedono
coinvolte persone comuni, in situazioni comuni, persone come noi, immerse,
senza lode e senza infamia, nella comune vita quotidiana.
Non entrando nel merito dei singoli episodi, è però evidente il
ripetersi di un fenomeno abbastanza irrazionale, ma talmente usuale che è
diventato quasi scontato.
Quando si viene a sapere che il tale ha strangolato la moglie, o il tal
altro ha sparato ai colleghi, o la figlia del vicino di casa ha
accoltellato una vecchietta, immancabilmente tutti - parenti, compaesani,
amici, conoscenti - dichiarano che quella era una persona assolutamente
normale, tranquilla, ben educata, e quasi sempre, persino mite e timida...
Superficialità? Paura? Bisogno di esorcizzare?
Si possono dare due letture. La prima: lo sbigottimento che segue alla
sorpresa e all’incredulità sottende una convinzione ben radicata quanto
inconscia, e cioè che un feroce assassino debba avere delle
caratteristiche tali da essere riconoscibili ed individuabili a prima
vista, come nei cartoni animati. Tutti sappiamo che questo non è vero, ma
ad ogni nuovo crimine, si ripete la litania.
La seconda: ammettere che una persona ben conosciuta, tranquilla, mite, normale
- normale come noi - possa essere capace di commettere un delitto,
significa ammettere che anche noi potremmo in qualsiasi momento essere
capaci di commettere lo stesso delitto. Prendere atto di non poter
controllare il manifestarsi del “male”, che pure è dentro di noi,
dentro ciascuno di noi, è la causa di quell’insostenibile sensazione di
incertezza ed impotenza che può portare anche la persona più sensata a
negare l’evidenza.
La reazione immediata è l’allontanamento, l’esclusione, una reazione
difensiva ben conosciuta in psicologia: quel mostro non fa parte della mia
famiglia, non fa parte del giro dei miei amici, non è del mio paese,
della mia città, della mia razza…
Eppure la specie umana è una. E la storia dovrebbe averci insegnato che
eroismo e crudeltà, santità ed efferatezza possono nascere e crescere
ovunque, ovunque vi siano esseri umani.
La reazione successiva è la ricerca di una spiegazione che dia un senso e
restituisca ordine a questo scombussolamento insopportabile, e cosa c’è
di meglio della follia? Sì, quel mostro è nella mia famiglia, è del mio
paese, è della mia razza, ma… è pazzo! Quindi – di nuovo – non ha
niente a che vedere con me! D’altronde la pazzia è sempre stata motivo
di esclusione e di rifiuto da parte dei membri cosiddetti “normali”
della società: in fondo è qualcosa che ancora ci sfugge, che ancora non
siamo in grado di spiegare completamente e che soprattutto è
difficilmente controllabile.
Riguardo poi alla prevedibilità di certi eventi, gli addetti ai lavori
potrebbero aggiungere che forse – almeno in alcuni casi - i segnali ci
sono, ma, oltre al fatto che pochi sono in grado di riconoscerli, dobbiamo
ammettere che neppure in questi casi è possibile prevedere se, quando, e
in che modo il male o, se preferite, la follia si manifesterà.
Purtroppo pensare che qualcosa è possibile, e persino probabile, non ci dà
la sicurezza che quel qualcosa accadrà. La mente umana non è sondabile
fino a questo punto.
Credo però che – tutti - una piccola cosa potremmo farla: essere più
attenti, più attenti soprattutto ai segnali di sofferenza di un essere
umano, che sia un familiare, un vicino di casa, o un collega di lavoro. La
sofferenza non sempre e non solo si palesa con lamentele, pianti o
richieste di aiuto. Quella è la sofferenza più visibile, ed anche la più
sana. Talvolta la sofferenza, quella più profonda e disperata, si
nasconde, si traveste da timidezza, da mitezza, da “normalità”, in un
desiderio quasi di invisibilità. Io sono convinta che per compiere certi
delitti siano necessari un’ostilità, un rancore, ed un odio talmente
grandi che possono scaturire, trovare le loro radici e la loro linfa, solo
in una sofferenza altrettanto grande.
Il che, mi preme sottolinearlo, non giustifica e non deve indurre
all’indulgenza. Ma questa è un’altra storia.
P
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