VETERANI
DI UNA GUERRA DI NESSUNO
Vincenzo
Andraous
E’
accaduto un’altra volta che un giovanissimo abbia fatto “piazza
pulita” del proprio coetaneo: di certo non ci sono professionisti del
crimine dietro questo schiantarsi della ragione, c’è solamente
una periferia invisibile, un territorio esistenziale dimenticato per il
carico delle sue eredità.
Un bullismo che
combatte altre schiere di pari, un disagio relazionale
demenzialmente carismatico, una generazione di maledetti per
vocazione, che irrompe negli spicchi di città lasciati senza custodi
educazionali.
Una colonna di
impavidi per età, per inesperienza, per solitudine, che imperversa nelle
mancanze altrui, a cominciare da quelle della strada, dove non
esiste più regola, né valore, figuriamoci ideale, il disvalore non è più
solo la spiegazione acculturata di una negatività, è soprattutto ciò
che campeggia sui sellini degli scooter mal allineati ai margini della
via.
Ragazzi e ragazze
cadono, colpevoli di non essere duri e prepotenti a sufficienza, o perché
turisti innocenti di una sera.
Rileggo le cronache,
gli sforzi letterari per rendere meno ostico il messaggio che traspare, ma
in queste morti c’è poco spazio per qualsivoglia letteratura noir,
romanticismo o nostalgia criminale di altri tempi.
Tanti anni fa
raccontai della sofferenza che ho provato per il raglio di un mulo ferito
a morte, un raglio che ti penetra sottopelle, ti grida dentro le ossa,
fino a farti impazzire per non ascoltarlo più.
La gente discute delle
ferite, delle lacerazioni, della morte inaccettabile, a me tornano in
mente le parole scritte dal mio amico Erri: “ La vergogna del sangue,
vergogna che paralizza più dell’ira”.
Troppo facile
risolvere e concludere la tragedia con una sentenza, con un’altra
condanna del colpevole, troppo semplice e scontato l’epitaffio.
Mi viene più fisico e
dunque meno caritatevole il disagio per quella vergogna che dovrebbe
assalire; “intero il corpo e la mente, per tanto sangue offeso e
umiliato. Vergogna del dolore e vergogna del sangue “.
Quando la vergogna
entra nelle case disabitate dal cuore, non c’è più giustificazione né
risposta che possa bastare.
Se c’è vergogna che bussa alla tua porta, non è miracolo di qualche
seduta di psicoanalisi, piuttosto è capolinea, è ultima stazione
concessa alla cecità dell’esser contro sempre e comunque. E’
ghigliottina per ogni colpevole accettazione di un folklore metropolitano
che genera cultura dei totem e del branco.
Quando le nocche delle
dita sono sbucciate, e nelle orecchie stride il rumore dei denti spezzati,
è davvero il momento di mettersi lo zaino in spalla, cacciandovi dentro
le armi di offesa e di difesa della propria ottusità e delle proprie
miserie, in codici d’onore presi a calci dalla storia.
Adesso c’è chi
piange, chi colpevolmente volge le spalle da un’altra parte, chi
tenta inutilmente di esorcizzare il male con qualche parentesi a effetto,
senza però denunciare le morti per difetto.
Quando un giovane si
schianta nella propria disumanità, c’è la torsione delle emozioni,
c’è soprattutto a farla da padrone la rampa di lancio
dell’innamoramento del “ sono tosto “, forse c’è pure lo
spinello, quello deposto come un fiore, e l’altro da fumare, comunque
droga sbagliata.
Violenza che diventa
simbolo di un associazionismo diverso, ma assai ben conosciuto, dove
il fumo e l’alcol che scendono ai polmoni si tramutano in propellente
che lega a filo doppio i clan di bambini adulti.
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