IL
FENOMENO “DOPING” - CENNI STORICI Matteo
Simone La
parola doping ha un etimo incerto: alcuni la farebbero provenire dal
termine olandese “doop” usato dai pionieri che fondarono Nuova
Amsterdam per indicare una bevanda eccitante a base d’erbe ed alcool.
Altri la vorrebbero derivata dal verbo inglese “to dupe”, che
significa ingannare, truffare. Quest’ultima
definizione sicuramente fa intendere meglio il comportamento sleale del
ricorso a sostanze e metodi vietati per migliorare il risultato sportivo. Della
parola doping non è attestata dunque la forma originaria, si conosce però
la data esatta in cui fu usata per la prima volta in un dizionario
inglese: nel 1889 fu così definita una miscela di oppio, narcotici e
tabacco data ai cavalli da corsa in un ippodromo statunitense. Il
doping ha comunque un passato assai antico: le “droghe” vegetali
figurano già nelle più antiche farmacopee e nel retrodatare la pratica
del doping, diversi esperti sono risaliti al periodo neolitico cinese
(circa 3000-2205 a.C.), nell’epoca dei “cinque sovrani”, mitici
saggi – imperatori, dei quali uno, precisamente Shen-Nung, scrisse
appunto un testo in cui si decantavano gli effetti eccitanti di un arbusto
chiamato “machuang”. Lo
stesso episodio della morte di Filippide, giunto stremato da Maratona per
annunciare agli Ateniesi la vittoria sui Persiani, ha fatto nascere
congetture tra gli esperti contemporanei. “Morì
per un collasso, ma non prese sicuramente anfetamine”, così P.Decourt
nel 1967 su Le Populaire du Centre. Al contrario invece R.Tolleron su Le
Generaliste nel 1978: “No. Fu proprio drogato, dopato, prima di partire.
Altrimenti non sarebbe morto, un soldato non muore per 40 chilometri di
corsa”. Verso
la fine dell’Ottocento si registravano casi sempre più numerosi di
pratiche proibite nel ciclismo e nella boxe professionistica. Già
in una sei giorni ciclistica del 1879 i corridori usarono caffeina,
zucchero disciolto in etere ed altre bevande a base di alcool e di
nitroglicerina, sulla base della sua attività coronarodilatatrice e nella
supposizione che aumentasse la portata cardiaca. Nel
1886 è riportata la prima morte per incidente dovuto a sostanze
stupefacenti nella storia dello sport. Durante una Bordeaux-Parigi di 600
chilometri un corridore, cui il suo allenatore aveva somministrato una
eccessiva quantità di trimitelamine, cadde a terra morto.[1]
L’atleta
Americano Tom Hicks, alla maratona delle Olimpiadi di St.Louis nel 1904,
ebbe un collasso in seguito all’ingestione di un cocktail di stricnina e
Brandy. Nel
1908 si dava l’ossigeno ai calciatori, mentre per i pugili si preferiva
miscele di brandy e cocaina! Appena
due anni dopo, nel 1910, abbiamo un anomalo caso di doping: negli Stati
Uniti, il pugile James J.Jeffries, mandato k.o. al 16° round da
Jack Johnson, dichiarò che il suo tè era stato drogato. E’ il primo
caso attestato di doping al rovescio del nuovo secolo: dare ad uno
qualcosa per farlo rendere di meno, per toglierli la vittoria
diminuendogli le capacità fisiche. Sempre
nel 1910 in Austria abbiamo la nascita del primo controllo anti-doping: a
seguito di analisi condotte su alcuni cavalli, un chimico russo portò al
Club dei Fantini austriaci la dimostrazione scientifica dell’avvenuta
pratica di doping, data dalla presenza di alcaloidi nella saliva degli
sfortunati quadrupedi[2]
Storicamente
è la seconda guerra mondiale che “esporta” alle discipline sportive
l’uso delle amfetamine, largamente sperimentate come “droghe da
combattimento” in tutti gli eserciti, ed usate senza controllo da
eminenti figure dello sport. Una
dimensione più drammatica della diffusione dell’uso dell’amfetamina
nella pratica sportiva è quella offerta dall’analisi delle morti per
doping. Una prima segnalazione di un caso mortale risale al 1949: il
ciclista Alfredo Falsini decedeva nell’ospedale di Rapallo, al termine
della Milano-Rapallo, per intossicazione da amfetamina[3];
tale fase termina intorno alla metà degli anni Sessanta, con
l’introduzione dei controlli antidoping. Gli
steroidi anabolizzanti vennero impiegati per la prima volta a fini doping
negli anni ’50 in Europa orientale. In seguito il loro uso si estese
agli Stati Uniti e rapidamente un po’ in tutto il mondo.[4] Perché
venisse istituita una forma ufficiale di controllo antidoping, si dovette
attendere il 1955: fu in quell’anno, infatti, che, in Francia,
cominciarono le analisi obbligatorie sui ciclisti, scoprendo
immediatamente percentuali di positivi pari anche al 20 per cento. Da
allora, i controlli hanno avuto luogo, progressivamente, in tutte le
discipline sportive e in tutte le manifestazioni internazionali più
importanti: nei Mondiali di calcio i controlli vennero introdotti
nell’edizione inglese del 1966, alle Olimpiadi della neve
nell’edizione del 1968, mentre per i Giochi olimpici fu necessario
aspettare fino al 1976.[5] Nel
1956 ai Giochi di Melbourne si ricordano le crisi convulse di un ciclista
che fece uso di stricnina. Due anni dopo, l’American College of Sport
Medicine condusse un’indagine su un campione di 441 allenatori,
direttori tecnici ed assistenti sportivi: più del 35% aveva
un’esperienza personale sulle anfetamine, mentre soltanto il 7%
dichiarava di non conoscerne neppure l’esistenza[6]. La
Federazione Medico-Sportiva Italiana (F.M.S.I.), organo del C.O.N.I., ha
iniziato i controlli antidoping fin dal 1960, mentre la legislazione
statale si è occupata per la prima volta seriamente di doping, undici
anni dopo, con la L. 26.10.1971, n. 1099, sulla “Tutela sanitaria delle
attività sportive”, che ha abrogato la L. 1055 del 1950. Nella
legge manca una esplicita definizione di doping ma la si ricava dalla
lettera dell’art. 3 in cui si penalizza con ammende sia “… gli
atleti partecipanti a competizioni sportive che impiegano sostanze nocive
per la loro salute al fine di modificare artificialmente le loro energie
naturali …”, sia colui che “… somministra agli atleti che
partecipano a competizioni sportive delle sostanze che modifichino le loro
energie naturali …”. L’ammenda
è triplicata se il fatto è commesso dai dirigenti delle società o
associazioni sportive, dagli allenatori o dai commissari tecnici. Nell’art.
6 si individuano i laboratori per i tests antidoping e l’iter di
accertamento, mentre nell’art. 7 si demanda ad un D.M. (emanato
successivamente il 5.7.1975) il compito di elencare “le sostanze
proibite ai sensi dell’art. 3 che possono essere rilevate nei liquidi
biologici”. La
L. 1099/71 è certamente innovativa rispetto alla L. 1055/1950, per aver
esteso i controlli a tutti coloro che praticano attività sportive
agonistiche così abolendo la differenziazione tra attività
professionistica, attività dilettantistica con retribuzione
abituale e attività dilettantistica vera e propria.[7] L’Italia
fu uno dei primi Paesi a legiferare in materia di doping nello sport: il
Belgio e la Francia nel 1945, l’Italia e la Turchia nel 1971, la Grecia
nel 1976 e il Portogallo nel 1979.[8] Nel
1960, il ciclista danese Kunt Jensen ebbe un collasso e morì ai Giochi
olimpici di Roma durante la prova a squadre di 175 chilometri, in seguito
all’ingestione di amfetamine e di acido nicotinico. Anche due compagni
di squadra di Jensen, che avevano assunto la stessa miscela, ebbero un
collasso, e furono poi ricoverati in ospedale. L’ostacolista Dick Howard
morì alle Olimpiadi di Roma, di eroina, la stessa droga che fu rinvenuta
nel corpo del pugile Billy Bello, che morì tre anni dopo. Tom Simpson morì
al Tour de France del 1967 a causa di uso eccessivo di metamfetamine.[9] Jacques
Anquetil, il ciclista morto nel 1988, disse che tutti i corridori
ricorrono a sostanze e metodi proibiti e quelli che lo negano sono dei
bugiardi. Analoga
autoaccusa la rese Harold Connoly, campione olimpico e primatista del
mondo di lancio del martello, alla sottocommissione inquirente del Senato
degli Stati Uniti nel 1973: “Per otto anni, prima del 1972, mi
sarei dovuto definire un atleta dedito ai narcotici. Come tutti i miei
rivali, nessuno escluso, usavo steroidi anabolizzanti come parte
integrante del mio allenamento. Ricordo tutti i nomi dei componenti la
squadra olimpica americana che avevano tante cicatrici e tanti buchi sulla
pelle che era diventato difficilissimo trovare una parte dell’epidermide
dove piazzare un nuovo “colpo”. Rilascio dichiarazioni di questo tipo
perché voglio sottolineare la convinzione che la stragrande maggioranza
dei praticanti di alcuna specialità dell’atletica leggera prenderebbero
qualsiasi cosa e farebbero qualsiasi cosa fino quasi ad ammazzarsi pur di
riuscire a migliorare le proprie prestazioni”.[10] Prima
del 1973, non esistevano analisi attendibili per evidenziare l’uso degli
androgeni anabolizzanti da parte degli sportivi. In quell’anno veniva
annunciato il primo metodo radioimmunologico capace di rivelare la
presenza nelle urine di androgeni anabolizzanti somministrati per via
orale[11]. I
primi controlli furono effettuati ai giochi del Commonwealth Britannico in
Nuova Zelanda nel 1974 e nove atleti, su un totale di 55 su cui si
effettuarono le analisi, avevano steroidi anabolizzanti nelle urine; non
vi furono sanzioni ed i concorrenti con riscontro positivo poterono
contare sull’anonimato, poiché l’operazione antidoping era stata
condotta a titolo sperimentale dimostrativo.[12] Gli
steroidi anabolizzanti vennero banditi come sostanze proibite dal Comitato
Olimpico Internazionale sin dal 1976[13]. Nel
1988 alle Olimpiadi di Seoul la medaglia d’oro della velocità,
l’allora mitizzato canadese Ben Johnson, pluri-recordman e collezionista
di successi internazionali, viene trovata positiva al controllo
anti-doping. Ne verrà fuori uno scandalo di dimensioni enormi. Lo stesso
atleta, durante l’udienza della Commissione di indagine della
Federazione Internazionale, spiegherà nei minimi dettagli l’uso-abuso
di sostanze dopanti, che a breve termine consentiva l’acquisizione di
successi sportivi, ma i cui effetti fisici erano di una devastazione e di
una letalità sconvolgenti. Incappato
nell’anti-doping gli fu tolto il titolo, fu squalificato e gli furono
cancellati i contratti degli sponsor che ammontavano a 10 miliardi annui. Anche
il nuoto non fu immune da questo vizio. In dieci anni, dalle Olimpiadi di
Los Angeles 1984 ai mondiali di Roma 1994, i nuotatori e le nuotatrici
cinesi sono diventati dei veri protagonisti, vincendo mediamente il 70%
delle medaglie d’oro e stabilendo record in tutte le discipline. I
sospetti, nati sia dagli sbalorditivi progressi dei rappresentanti di
questa nazione che dalla loro “presenza fisica” – questi atleti
erano infatti notevolmente aumentati di massa muscolare – avevano
indotto gli allenatori degli altri Stati a compilare un atto di accusa su
presunte pratiche proibite. Questa
clamorosa protesta fu accompagnata anche da una singolare azione
giornalistica, l’autorevole rivista Swimming World non inserì nelle
classifiche all time i risultati delle atlete asiatiche ai Mondiali del
1994 A Roma, prima della conferma con i Giochi Continentali di Hiroshima,
quando ben 11 nuotatori cinesi risultarono positivi all’anti-doping.[14] A
seguito di un controllo incrociato sangue-urine a sorpresa, effettuato su
50 atleti alla vigilia dei campionati del mondo di Edmonton 2001, tra i
dieci casi sospetti – secondo la Iaaf – di ulteriori accertamenti,
quello del trentaseienne Roberto Barbi, è risultato l’unico caso di
positività ed il primo caso mondiale di EPO nell’atletica. In un
intervista apparsa sulla Gazzetta dello Sport il 28 agosto 2001, Leonardo
Ricci, il suo trainer, racconta di una conversazione in cui l’atleta ha
confermato la sua colpevolezza, puntando il dito su uno sconosciuto che
gli avrebbe offerto delle fiale durante il ritiro di St. Moriz[15]. [1]
ARPINO M.: “Lo sport giovanile e Scolastico in Europa e nel Mondo nel
terzo millennio – Quali iniziative per prevenire e combattere il
Doping?” - Atti del Convegno Internazionale Cagliari/Quartu S.Elena,
26/27/28 maggio 2000. [2] ARPINO M., 2000, opera citata. [3]
MARENA G.: Il controllo antidoping negli atleti: valutazione critica
dell’esperienza italiana e proposte per un suo miglioramento - Tesi di
Specializzazione in Tossicologia Medica, Università degli Studi di
Firenze, Anno Accademico 1985/86 [4]
GIADA F., CONTE R., PALATINI P.: Effetti farmacologici e tossicità
degli steroidi anabolizzanti, Medicina dello sport, 52/2, 1999 [5]
BIENTINESI: Farmaci & Sport 1991. [6] ARPINO M., 2000, opera citata. [7]
CAPRISTO C.M., GAGLIANO-CANDELA R., GRECO M.: Normativa e tossicologia
dello sport - F. MILELLA Editore, Bari. [8]
DE JULIIS T, VITTORIOSO V.:, Normative su la tutela sanitaria delle
attività sportive e la lotta al doping - Organizzazione Editoriale
Medico Farmaceutica, Milano, 1991. [9] HOULIHAN: Morire per vincere, 2000. [10]
ARPINO M., 2000, opera citata. [11]
BROOKS R.V., FIRTH R.G., SUMMER N.A.:, Detection of anabolic steroids by
radioimmunoassay - Br. J. Sports Med. 29, 1975. [12]
LAMB D.R.:, Anabolic steroids in athletics: How well do they work and
how dangerous are they? - Am. J. Sports Med. 12, 1984 [13]
GIADA F., CONTE R., PALATINI P., 1999, opera citata. [14]
ARPINO M., 2000, opera citata. [15]
MARANNANO V.: Corse su strada, 40, 2001.
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