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La famiglia, la malattia e l’intervento psicoeducativo

Raffaele Crescenzo

Psicopedagogista.

Responsabile progetto "Centro Assistenza Ascolto" Servizio A.D.I. Distrettuale – ASP Cosenza - per le famiglie ed i malati a domicilio.

 

La malattia inizia il suo percorso, generando impaccio emotivo, psicologico e comportamentale nella persona sofferente e in coloro che gli stanno vicino. Qualcosa sta mutando. Inizia la comunicazione tra i membri della famiglia per un’analisi delle risorse interne per condividere insieme il percorso della malattia e lo stress assistenziale conseguente. 

Il lavoro psicoeducativo accanto alle famiglie non solo si propone di capire come la famiglia reagisce e quali risposte dà ad una situazione di stress, di crisi scaturente da un dolore, da una malattia e da un lutto, ma di giungere ad una buona comprensione della quantità e qualità del lavoro che una famiglia compie su se stessa per raggiungere un determinato grado di adattamento, in seguito ad eventi che rischiano di disgregarla. In tale ottica è possibile mettere a fuoco l’importanza delle risorse che la famiglia contiene ed utilizza per mantenere il suo equilibrio affettivo e relazionale, le conoscenze, le culture che le permettono una razionalizzazione ed una ricerca di significato degli eventi che la vedono coinvolta affettivamente e psicologicamente. La malattia inizia il suo percorso, generando impaccio emotivo, psicologico e comportamentale nella persona sofferente e in coloro che gli stanno vicino. Qualcosa sta mutando. Inizia la comunicazione tra i membri della famiglia per un’analisi delle risorse interne per condividere insieme il percorso della malattia e lo stress assistenziale conseguente. Il contatto quotidiano con l’ammalato diventa difficile ed il percorso assistenziale provoca una riduzione delle  risorse emotive, affettive e psicologiche che conducono ad isolamento sociale. Il familiare si trova a dover gestire anche le responsabilità e i compiti dell’altra persona. Quando il ruolo della persona ammalata cambia, le aspettative di ogni membro della famiglia cambiano e l’alleanza deve essere un valore e un punto di riferimento tra i componenti della famiglia. Spesso i familiari non aiutano gli altri componenti della famiglia in quanto diventa difficile per essi accettare la realtà stessa della malattia. Importante è la fortificazione di un’alleanza che ha come obiettivo quello dell’accettazione della malattia e della realtà. Rifiuto, ipercoinvolgimento, collera, senso di colpa ogni persona reagisce in modo personale e differente alla malattia e la consapevolezza di queste reazioni non deve essere causa di ulteriori conflitti e negatività, ma di accettazione dell’esperienza individuale emotiva. Una reazione comune a tutti i familiari è quella di rifiutare la malattia e tutti i segnali o sintomi correlati ad essa. E’ un meccanismo di difesa. Il rifiuto impedisce di far fronte e riconoscere la situazione problematica. Si utilizzano strategie comportamentali non adeguate come l’incoraggiare o stimolare continuamente a fare qualcosa che la persona non è più in grado di fare. Manifestazioni comportamentali che possono incentivare il rifiuto alla malattia tanto da innescare due meccanismi deleteri come l’illusione di una diagnosi sbagliata e l’angoscia nella ricaduta dei sintomi. Con la conseguenza di un ipercoinvolgimento emotivo assistenziale come forma di iperprotezione psicologica  che conduce ad un’assistenza protettiva nei confronti dell’ammalato, con conseguente isolamento emotivo, affettivo e tentativo di controllare la malattia o di impedirne l’evoluzione. Tutto ciò comporta la sconfitta personale e psicologica del familiare. La conseguenza di ciò è la collera, sentimento che nasce come reazione alla frustrazione assistenziale, al coinvolgimento psicologico, alla dedizione che non hanno rallentato l’evoluzione della malattia, anzi hanno provocato un senso di impotenza e tristezza. Il comportamento disturbante, inappropriato e a volte imbarazzante del congiunto ammalato può rendere il familiare aggressivo, non tollerante, impaziente e collerico in quanto viene a mancare la capacità di fronteggiare ed accettare le alterazioni comportamentali dell’assistito. E’ importante identificare l’origine e la natura della collera, per l’avvio di un processo di adattamento e di accettazione della malattia. Questa comprensione permette di controllare i negativi stati emotivi e consente la corretta gestione assistenziale, migliorandone la qualità. Il senso di colpa è comune tra i familiari e si identifica come una combinazione di sentimenti  negativi come ansia, dolore, risentimento, paura di non essere all’altezza. La conseguenza di un comportamento aggressivo, collerico e non paziente scaturisce dalla sensazione di inadeguatezza, dalla necessità di  un aiuto esterno e dal desiderio di avere dei momenti per se stessi. La cura per se stessi, per molti familiari, è messa in secondo piano in quanto vogliono fornire un’assistenza, costante, competente ed amorevole. Questo obiettivo spesso irraggiungibile e non permette di identificare e soddisfare i loro bisogni. E’ utile incoraggiare il familiare a prendersi cura di se stesso, per conservare la capacità fisica ed emotiva. L’obiettivo importante da raggiungere è l’accettazione che avviene dopo l’elaborazione dei propri sentimenti e vissuti. Avviene quando il familiare ha trovato delle risposte alle proprie domande per far fronte alla malattia. L’evoluzione della  malattia ha reso il congiunto ammalato più gestibile e alleviato il senso di impotenza, di colpa, di frustrazione. Il familiare comprende la sua incapacità di curare ma si rende cosciente della sua capacità di prendersi cura del proprio caro. L’accettazione della  persona che si deve accudire, rende consapevole il familiare dei propri limiti assistenziali e gli permette, inoltre, di considerare una nuova forma di assistenza. La non accettazione comporta tristezza, scoraggiamento, che si traduce in apatia, svuotamento interiore, esaurimento psico-fisico che non permette un adeguata percezione ed esame della realtà. La percezione dell'esistenza di un problema in famiglia modifica quotidianamente una realtà di per sé pesante, che viene vissuta come angosciante e cupa emotivamente ed interiormente. Questa condizione viene vissuta dalle famiglie come un sentimento di solitudine e di isolamento. Il proprio tempo libero è ristretto al massimo o condizionato fortemente; sviluppano spesso vissuti di apprensione, di perdita di speranza, di impotenza e frustrazione. Avvertono che molto dipende da loro, ma spesso non sanno cosa fare e come agire, sentendosi sempre in uno stato di continuo coinvolgimento emotivo fatto di paure ed ansie. Ci troviamo di fronte a diversi stili relazionali. Nel tentativo di mantenere l’omeostasi (Jackson,1957) la famiglia cerca di adattarsi alla malattia seguendo un processo che implica l’attraversamento di fasi che spesso sono parallele a quelle che vive il paziente stesso. Ruoli confusi, negazione delle conseguenze legate alla malattia al fine di mitigare una realtà avvertita come intollerabile, famiglie rigide con individualizzazione esasperata profondamente tesa a mantenere lo “status quo ante”, negando che ci sia bisogno di cambiamento per affrontare il problema (Minuchin & alt.,1978), atteggiamenti iperprotettivi ed eccessivamente coinvolti con manifestazioni di ansia marcata nei confronti del sofferente. Molti caregivers affermano che il loro scopo principale è mantenere il loro parente a casa, finché sia possibile, provvedendo all’assistenza. Scarsa spinta all’autonomia con atteggiamento distaccato per cui si preferisce, per proteggersi dall’ansia, delegare o nascondere il tutto, soffocando il conflitto esistente. Altre famiglie assumono posizioni ambigue di fronte all’assistenza domiciliare del proprio congiunto, tanto da essere considerata come una cosa positiva e, nel contempo, come una cosa negativa. Una contraddittorietà che manifesta una sorta di colpevolizzazione delle famiglie per aver delegato ad “altri” la cura del proprio congiunto ammalato, considerando ciò un modo per respingerlo ed abbandonarlo. Allo stesso tempo sono consapevoli di non poter sostenere sufficientemente il percorso assistenziale. Nonostante questa consapevolezza, le famiglie avvertono un senso di angoscia di fronte al pensiero di mettere“il loro malato” nelle mani di estranei, di persone che si occuperanno bene o male di lui, mal sopportando il fatto che essi abbiano dei rapporti, delle relazioni di vicinanza con loro. Una sorta di invidia nei confronti del personale sanitario, e con frequenza esperiscono ogni tentativo per imporre e far valere il proprio parere, con l’unica finalità di dimostrare che il malato appartiene, in ogni caso, a loro. Tanti sono gli ammalati che ritornano nel proprio ambito familiare. Tante le famiglie che non possono, non riescono ad assisterli sentendosi indifese, impotenti e disperate. Alcune manifestano la propria non accettazione, incomprensione, rabbia ed impazienza nei confronti del malato. Altre, oramai logorate e stanche, gettono la spugna ed abbandonano. Necessitano interventi pedagogici ed educativi mirati, programmi di arricchimento relazionale, approcci comportamentali che favoriscano l’orientamento verso una precisa attenzione verso la definizione di un sostegno sociale che quel particolare nucleo familiare richiede per poter fronteggiare l’assistenza del familiare ammalato. In tal senso, i modelli pedagogici e psicoeducativi devono sempre più essere sviluppati in relazione ai nuovi bisogni di assistenza nella comunità determinati dal fenomeno della deospedalizzazione e delle degenze sempre più brevi. Offrendo alle famiglie strumenti semplici, soprattutto di tipo conoscitivo, per convivere con il congiunto ammalato, per accettarlo e per affrontare i periodi di crisi. Insegnare ai componenti della famiglia ad affrontare i comportamenti, le comunicazioni contraddittorie e gli atteggiamenti problematici caratteristici dell’assistenza. Questi modelli assumono come centrale il rapporto educativo con le famiglie e, non esplicitano un intervento psicoterapeutico o psicologico, sono mirati a coinvolgere le famiglie, a rompere il loro isolamento, a cambiare il rapporto con il servizio, a potenziare la famiglia come luogo di assistenza, a spostare su di essa alcune definite competenze e ad attivare potenzialità che altrimenti rischiano di rimanere latenti e chiuse al suo interno. L’umanizzazione dell’assistenza è tanto più possibile quanto maggiore è la solidità della famiglia. Non è pensabile chiedere alle famiglie di assistere in casa i propri ammalati e poi abbandonarli al loro destino con l’inevitabile rischio di disgregarla. L’intervento deve coinvolgere la famiglia, in specialmodo quando si tratta di affrontare un programma assistenziale lungo e doloroso, oppure quando la malattia del congiunto necessita di interventi immediati. Il coinvolgimento attivo familiare oltre a permettere la realizzazione dell’intervento nell’ambiente di vita del malato, fornisce agli operatori l’osservazione e la valutazione del “clima” emotivo e relazionale intrafamiliare. Ciò è fondamentale per evitare che i componenti del nucleo familiare possano essere sottoposti a stress, per l’eccessivo carico di responsabilità e di lavoro psico-fisico,  che potrebbe condurre al rischio di “bruciarsi” o “cortocircuitarsi” e per ridurre, nondimeno, la possibilità di una crisi profonda e lacerante. Da questo punto di vista un sostegno concreto che provenga dal contributo di operatori dell’aiuto appare particolarmente importante per le famiglie, le quali possono costruire un rapporto personalizzato con l’operatore che le aiuta, senza avvertire la sensazione di perdere il controllo nella situazione di cura. L’operatore diventa per la famiglia una persona con cui condividere ansie e incertezze. Egli sembra in grado di raccogliere e di riconoscere quei bisogni dell’intera famiglia. Inoltre, sembra rappresentare per molte famiglie una maniera per accedere nuovamente a una "normalità" relazionale frequentemente abbandonata a causa della malattia, un riavvicinarsi a relazioni sociali frequentemente trascurate a causa del totale assorbimento relativo all’assistenza. Dunque,utile a due livelli. Sul piano pratico aiuta la famiglia a iniziare un dialogo con i servizi per eventuali momenti di assistenza, di contatto, nella presa di decisione. Inoltre sul piano psicoeducativo aiuta i famigliari a elaborare nuove modalità di approccio relazionale con il congiunto malato, permette  di avere dei momenti di dialogo con qualcuno,   sostenendoli nei momenti critici e di sconforto. La famiglia e la sua centralità, è il luogo dell’intervento psicoeducativo che rappresenta una risposta flessibile ed innovativa al disagio familiare, poiché adotta risorse, metodi e strumenti tali da poter  prevenire e riparare dinamiche relazionali alterate che troppo spesso sono fonte primaria di rischio dell’equilibrio emotivo intrafamiliare. L'obiettivo prioritario, pertanto, è quello di garantire il massimo sostegno alla famiglia in difficoltà intervenendo sul suo disagio con un approccio relazionale globale, che garantisca lo sviluppo di un processo di mediazione tra individuo in difficoltà e le altre persone. In tal senso, i familiari sono visti come alleati e co-protagonisti, non viene loro attribuita alcuna colpa o responsabilità, si riconosce, piuttosto, il fatto che sopportano un carico e molte limitazioni in conseguenza del disturbo del congiunto e che debbono essere aiutati a migliorare le loro strategie di gestione del disturbo e di comunicazione con gli altri, affrontare meglio lo stress della vita di tutti i giorni accanto al congiunto ammalato. All'inizio del trattamento vi è un intervento psicoeducazionale strutturato, seguito da incontri con la singola famiglia o con gruppi di famiglie, con cadenza almeno quindicinale e/o mensile, che continuano per  periodi a medio e lungo termine. Un approccio psicoeducativo integrato (Faloon,1992) per la valutazione dei punti di forza e dei lati deboli del nucleo familiare, per l’insegnamento di abilità di comunicazione e di un metodo strutturato di soluzione dei problemi, come migliorare il modo di discutere e affrontare insieme i problemi. L’operatore che segue la famiglia più da vicino incoraggia, mostra/propone di decidere insieme a trovare soluzioni ai loro problemi, tranne nei periodi di particolare difficoltà o grave crisi, in cui interverrà direttamente con le sue conoscenze proponendo i metodi più adatti, ma più spesso egli si comporterà come un “consulente di processo”(Schein, 1992), un “case manager”* che aiuterà i familiari a trovare da soli le risposte (Folgheraiter, 1993). Ai membri della rete familiare viene richiesta la partecipazione a riunioni settimanali con uno o due operatori; durante gli incontri con gli operatori vengono valutati i progressi e le difficoltà incontrate. Gli effetti positivi e duraturi di tali incontri, oltre all’efficace fattore informazione, sono quelli riconducibili alla solidarietà tra famiglie, alla condivisione di problemi comuni, ansie, timori, alla "catarsi (rebirthing)" intesa come liberazione dalle passioni attraverso la rappresentazione e la condivisione di vicende che suscitano forti emozioni, al fine sollevare e rasserenare l'animo (De Luca, 1995), poter esperire le proprie emozioni senza esserne sommerso, può "sentire intelligentemente" e "capire sentimentalmente", una scarica emozionale con la possibilità di comprensione intellettuale e recupero di preziose energie vitali fino a quel momento impegnate in meccanismi di difesa, tesi a mantenere gli equilibri in un contesto di sofferenza (Falzoni Gallerani, 1992). Le funzioni essenziali e gli obiettivi di tale intervento sono quelli di sostenere la famiglia nei momenti di difficoltà, fornendogli gli strumenti per fronteggiarle e rimuoverle; aiutandola quindi a scoprire le proprie potenzialità, riconoscere i propri bisogni, acquisire capacità di agire in autonomia; valorizzare e potenziare le dinamiche relazionali all’interno della famiglia in quanto “se il comportamento del malato viene profondamente e costantemente influenzato in senso positivo dalla realtà assistenziale(….) e familiare possiamo riscontrare espliciti miglioramenti clinici, riacquisizione di energie individuali e collettive(….)”(Cazzullo,1997); costruire una rete di legami “community-oriented” (Calvaruso, 1994) per sostenere la famiglia in difficoltà, mettendola in condizioni di recuperare il suo ruolo  e di operare in autonomia; promuovere le capacità progettuali della famiglia senza esigere nuovi paradigmi con la convinzione che ”invece di portare un metodo di lavoro con me……(paradigma), cerco di catturare un discorso fresco e differente con ogni famiglia, in ogni sessione (sintagma)” (Di Nicola, 1993).

 

 

 

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* Il "Responsabile del caso" è un operatore che si assume la responsabilità del controllo dell'attuazione degli interventi previsti nel programma assistenziale personalizzato (è il garante del piano assistenziale individualizzato). Rappresenta anche il primo riferimento "organizzativo" per l'assistito, la sua famiglia operatori dell' équipe assistenziale. E’ una figura di raccordo all’interno dell’équipe assistenziale, garantendone l’integrazione, tenendo le fila della comunicazione tra i suoi membri e assicurando che gli interventi assistenziali sul singolo caso siano effettuati in maniera coordinata senza sovrapposizioni, intralci reciproci e/o vuoti di assistenza. Cura il rapporto con la famiglia dell’utente con il referente familiare fornendo la più ampia informazione sul programma assistenziale che deve essere dalla famiglia pienamente condiviso, al fine di attivare la massima collaborazione e di raccogliere tutte le indicazioni utili e/ le richieste di aiuto e di supporto.

 

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