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Sviluppo del linguaggio e Disturbo Specifico del Linguaggio:

aspetti emotivi, relazionali e cognitivi

Giovanna Piagione

 

Riassunto

L'obiettivo di questo lavoro è quello di cercare di comprendere lo sviluppo del linguaggio considerandolo come inserito all'interno di un sistema complesso nel quale le emozioni, le relazioni e le abilità cognitive partecipano, interagiscono e si sviluppano. Secondo Trevarthen  i bambini sembrano predisposti all'interazione e alla comunicazione fino all'acquisizione del linguaggio guidati dalle emozioni e la loro condivisione. Il linguaggio, infatti, consente una condivisione ulteriore: di qualcosa che non è immediatamente presente o osservabile come le esperienze interne quali idee e sensazioni. Per Nelson il bambino è portato a costruirsi delle rappresentazioni mentali degli eventi che sperimenta in maniera ripetuta; queste prime capacità rappresentazionali non linguistiche sarebbero importanti precursori cognitivi per lo sviluppo del linguaggio e, a sua volta, l'acquisizione del linguaggio consentirebbe il passaggio ad un doppio livello rappresentazionale: non verbale e verbale. In questo modo il bambino diventa in grado di ragionare sugli eventi, assumere i punti di vista degli altri e ragionare sul linguaggio per comprenderne le regole e svilupparlo ulteriormente. Nelson si sofferma sullo sviluppo delle narrative nelle quali sono implicate abilità cognitive strettamente relate con le nuove acquisizioni linguistiche. E proprio grazie alle narrative il bambino comincerebbe a comprendere pensieri e credenze degli altri. Alla luce di tali considerazioni è interessante verificare quali aspetti emotivi e cognitivi siano implicati nel Disturbo Specifico del Linguaggio per proporre un approccio terapeutico mirato.

 

I precursori del linguaggio: l’importanza della relazione

Già nelle prime settimane dopo la nascita si può notare una predisposizione del neonato a rispondere in maniera selettiva agli stimoli sociali quali la voce e i volti umani (Camaioni, 2001). A 2 mesi sono particolarmente attratti dal contorno del volto, come l’attaccatura dei capelli, e dalla zona intorno agli occhi. Questa attenzione preferenziale non gli consente ancora di essere in grado di distinguere un volto dall’altro, ma è fondamentale per l’instaurarsi delle interazioni faccia a faccia, così come l’attenzione preferenziale per la voce umana (Schaffer 1998). Gli occhi, i volti e la voce umani diventano stimoli scatenanti il sorriso detto esogeno, ossia rispondente a stimoli esterni. Inizialmente il neonato produce solo il sorriso endogeno che si presenta spontaneamente quando percepisce una sensazione di benessere; il sorriso esogeno invece, grazie allo sviluppo anche del controllo dei movimenti oculari, viene modulato e diventa contingente nelle interazioni con l’interlocutore. Verso i 3 mesi, con l’aumento delle capacità di distinguere i volti, diventerà sociale, in quanto indirizzato solo verso le persone che il bambino conosce (Camaioni, 2001). Le interazioni faccia a faccia sono caratterizzate da una sincronia di ritmi comportamentali dei due partner. Il bambino interagisce seguendo dei cicli biologici di attenzione-non attenzione; nonostante ciò, si possono notare delle lievi variazioni nell’alternanza fra il guardare e il non guardare l’adulto, indicative degli sforzi compiuti per regolare il livello di attivazione nella partecipazione ad un’esperienza per lui molto stimolante. D’altra parte gli adulti sono intuitivamente consci del bisogno di aiuto del bambino nel modulare il livello di attivazione; infatti nelle interazioni faccia a faccia l’adulto gli rivolge sempre lo sguardo, prestando costantemente attenzione a sincronizzarsi con le sue necessità di attivazione e di intervallo. Ben presto il bambino sarà in grado di decidere autonomamente se prestare attenzione o meno all’adulto durante le interazioni. Un altro aspetto che caratterizza queste primissime interazioni faccia a faccia è il turn-taking secondo il quale adulto e bambino si sovrappongono raramente durante i vocalizzi, alternando il ruolo d’ascoltatore quando l’altro “parla” e il ruolo d’oratore quando l’altro ascolta. Anche questo aspetto è regolato principalmente dall’adulto che parla o vocalizza nei momenti in cui il bambino resta in silenzio consentendigli di apprenderne le regole (Schaffer 1998). Il lattante si presenta anche come socialmente attivo in quanto pianto, sorriso ed espressioni facciali vengono interpretati dalle persone che lo circondano come espressioni di gioia, dolore, piacere o disagio e questi rispondono modificando il proprio comportamento in seguito a tali interpretazioni (Camaioni, 2001). Nelle prime settimane di vita il lattante è persino in grado di imitare delle espressioni facciali. Nelle interazioni faccia a faccia il bambino presenta anche dei vocalizzi che ripete negli scambi, e a 2-3 mesi è in grado di imitare i suoni dell’adulto. Fra i 2 e i 6 mesi questi vocalizzi sono caratterizzati dall’emergere dei suoni vocalici e consonantici e delle prime sillabe, suoni che emergono in tutte le culture linguistiche. Verso i 6-7 mesi compare la lallazione e il bambino produce sequenze consonante-vocale con le stesse caratteristiche delle sillabe. In questa fase diventa sensibile alle caratteristiche della lingua materna e comincia a riconoscerne i contorni intonazionali e i suoni, perdendo però quelli che non le appartengono. Nei primi mesi di vita le interazioni faccia a faccia vengono definite protocomunicazioni in quanto, pur apparendo come dei veri e propri scambi conversazionali di vocalizzi ed espressioni, caratterizzati da turn-taking, contingenza e sincronia, non sono delle vere conversazioni in quanto nel bambino non c’è ancora l’intenzione di influenzare l’altro. Infatti solo dopo gli 8-9 mesi è in grado di comprendere che le proprie azioni producono sugli altri delle conseguenze prevedibili e assumono un significato condiviso, e solo in tal caso il bambino diventa in grado di metterle in atto intenzionalmente e con lo scopo di influenzare gli altri. All’interno delle protoconversazioni la comunicazione è espressiva o affettiva in quanto riguarda la diade stessa e non un oggetto o un argomento esterno ad essa. A questa età il bambino, infatti, non è in grado di flessibilità nella capacità di attenzione e può impegnarsi solo in interazioni o esclusivamente con il partner comunicativo o esclusivamente con un oggetto. Verso i 5 mesi sviluppa capacità manipolative che lo portano ad essere sempre più interessato agli oggetti che può afferrare e con i quali può stimolarsi, non è ancora in grado di prestare attenzione all’altro e all’oggetto contemporaneamente, ma le interazioni con l’adulto vertono intorno ad un oggetto. A supplire alle difficoltà del bambino in queste interazioni sarà l’adulto, che convertirà una situazione bambino-oggetto in una bambino-oggetto-adulto. A tal scopo questi presta attenzione alla direzione dello sguardo del bambino nei confronti di un oggetto per poi dirigere la propria attenzione verso il medesimo oggetto; in tal modo è l’adulto a rendere l’argomento condiviso tramite il coordinamento dell’attenzione con quella del bambino. Oltretutto l’adulto indicherà l’oggetto, lo nominerà, farà dei commenti, aiutando così il bambino ad ampliare le sue competenze. Dagli 8-9 mesi i bambini divengono in grado di impegnarsi contemporaneamente in diverse attività e di prestare attenzione contemporaneamente all’oggetto e al partner comunicativo. In questa fase le interazioni si svolgono sempre più attraverso dei giochi convenzionali che coinvolgono entrambi i partner e sono basati su regole chiare, come lo scambio dei ruoli e la ripetitività, consentendo l'acquisizione di abilità importanti come la capacità di anticipare l’interazione successiva, integrare il proprio ruolo con quello di un altro e scambiare i ruoli (Camaioni, 2001; Schaffer 1998). Il gioco consentirebbe anche di padroneggiare delle caratteristiche che sono presenti nel linguaggio come la presenza di componenti poste in successioni che possono essere modificate senza infrangere le regole sulle quali poggiano; ciò, secondo Bruner (cit. in Schaffer 1998), renderebbe più facile comprendere le richieste insite nelle conversazioni. Nei giochi si può osservare l’emergere di abilità importanti negli scambi sociali e nella comunicazione: la reciprocità e l’intenzionalità. Infatti il bambino da 8 mesi in poi impara che una interazione ha bisogno del contributo di entrambi i partner e che i loro ruoli devono essere reciproci e possono essere scambiati; impara anche a pianificare il comportamento e a rappresentarsene le conseguenze: il comportamento diventa intenzionale. L’intenzionalità è manifestata attraverso l’alternanza dello sguardo dall’oggetto al partner e viceversa, dal ripetere e correggere i comportamenti e i messaggi finché non raggiungono lo scopo e dalla ritualizzazione delle azioni che non vengono più utilizzate solo per agire sull’ambiente direttamente, ma anche per comunicare un messaggio all’altro. Fra i 9 e i 12 mesi compaiono i gesti deittici (l’indicare, il richiedere e il porgere in maniera convenzionale) che si riferiscono ad un oggetto o un evento esterni allo scopo di comunicare qualcosa, ma il cui significato è legato al contesto in cui si presentano. L’intenzione comunicativa si evince dall’alternanza dello sguardo dal destinatario all’oggetto, il segnale è convenzionale e quindi comprensibile al destinatario, ed è distale nel senso che non vi è contatto col destinatario o con l’oggetto ad eccezione del mostrare e porgere che possono prevederlo. Lo scopo di questi gesti può essere quello di fare una richiesta o quello di dichiarare qualcosa, ossia condividere l’attenzione per un evento esterno. Dopo i 12 mesi compaiono anche i gesti rappresentativi che esprimono un’intenzione comunicativa rappresentando qualcosa indipendentemente dal contesto; ad esempio il bambino può fare il gesto di volare con le mani per indicare un uccellino. Questi gesti inizialmente vengono appresi all’interno di routine per imitazione; ma successivamente vengono utilizzati anche in altri contesti a scopo comunicativo. I gesti in questione compaiono all’incirca quando compaiono anche le prime parole e, man mano che si sviluppa il linguaggio, ne vengono sostituiti: è evidente che necessitano delle medesime abilità cognitive quali quella della simbolizzazione. Nello sviluppo della produzione del gesto di indicare a 12 mesi il bambino prima indica e dopo controlla se il destinatario ha colto il gesto e a 16 mesi prima controlla che l’interlocutore stia indirizzando su di lui l’attenzione e solo in tal caso produce il gesto. Nello sviluppo della comprensione di tale gesto, il bambino a 9 mesi non è in grado di comprenderlo e guarderà in egual misura il dito e gli oggetti indicati, verso 12 mesi si orienta nei confronti dell’oggetto solo se questo rientra nel proprio campo visivo, infine verso i 18 mesi riesce ad orientarsi anche verso oggetti posti alle sue spalle. Il gesto d’indicare può avere due funzioni che emergono in tempi diversi: quella richiestiva, nella quale lo scopo è quello di influenzare il comportamento dell’interlocutore per ottenere qualcosa, che emerge per prima e necessita semplicemente che il bambino sia in grado di anticiparsi gli eventi; e quella dichiarativa, nella quale lo scopo è influenzare l’attenzione dell’altro ed è necessario, pertanto, che il bambino sia in grado di rappresentarsi l’interlocutore come dotato di stati mentali quali ad esempio l’attenzione. Il gesto d’indicare sembra essere molto importante per lo sviluppo del linguaggio e costituisce un ottimo indicatore per lo sviluppo linguistico successivo;ciò potrebbe essere dovuto al fatto che entrambi si basino sulla capacità di comunicare attraverso segnali convenzionali e quindi rappresentino la manifestazione dello sviluppo della medesima abilità; oppure l’indicare faciliterebbe gli scambi interazionali con l’adulto fornendo così maggiore esposizione a stimoli linguistici per il bambino (Camaioni, 2001; Schaffer 1998). Si può notare che tutti i precursori del linguaggio si sviluppano all’interno di interazioni e a scopo interazionale. Il bambino fin qui descritto da Schaffer e Camaioni, sembra predisposto biologicamente fin dalla nascita a sviluppare abilità che lo rendano in grado di interagire all’interno di relazioni sociali e di stimolare nel partner comportamenti che consentano di favorire lo sviluppo di tali abilità fino all’acquisizione del linguaggio. Ma le interazioni importanti per il bambino sono quelle ripetute e con persone significative come i genitori, ossia che fanno parte di relazioni. Pertanto nello sviluppo del linguaggio le relazioni che si instaurano con l’altro assumono un ruolo cruciale sia per la stimolazione che ne deriva per il bambino e la guida e le facilitazioni che l’adulto mette in atto spontaneamente, sia, come vedremo, per la componente emozionale e affettiva che le caratterizza.

 

L’intersoggettività: il ruolo delle emozioni nello sviluppo linguistico

Come afferma Trevarthen (1997) l’intersoggettività corrisponde alle interazioni fra soggetti che comunicano all’interno di diadi o di sistemi sociali, nelle quali l’uno abbia consapevolezza e sia recettivo nei confronti degli stati soggettivi dell’altro. In queste interazioni le emozioni assumono un ruolo molto importante in quanto sono in grado di far influenzare reciprocamente i diversi soggetti coinvolti in maniera forte e diretta. L’espressione delle emozioni, infatti, comporta l’emergere di sentimenti in chi vi assiste, i quali possiedono una forza tale da modificarne le motivazioni e quindi i comportamenti. A sua volta il partner comunicativo, in uno scambio reciproco, è in grado di provare anch’egli emozioni in risposta all’altro e di provocarne così modificazioni nelle motivazioni, percezioni e comportamenti. Il bambino appare orientato verso l’intersoggettività attraverso le emozioni già nelle prime ore dopo la nascita anche se prematuro. I suoi comportamenti di espressione di benessere o disagio, chiare espressioni emozionali, non sono solo in grado di attivare nell’ambiente le cure necessarie al proprio benessere e alla propria sopravvivenza, ma sollecitano anche prime forme di comunicazione intersoggettiva. Il neonato è orientato verso forme di accudimento che esprimono emozioni positive suscitate nella madre dallo stesso neonato; sono attratti da carezze amorevoli e voci dal tono acuto e affettuoso, mentre si ritraggono da manipolazioni brusche ed indifferenti che manifestino emozioni negative e sembrano più orientati verso esperienze di contingenza empatica positiva che non di contingenza semplice. Fin dalla nascita, anche se prematuro, il neonato è in grado di produrre espressioni emotive innate. Infatti la forma anatomica delle espressioni, la loro temporizzazione e modulazione, dimostrano una concordanza fra le diverse culture tale da avvalorare questa tesi. Sembra che siano proprio queste caratteristiche a favorire il sorgere di interazioni con gli adulti. Il feto è predisposto già in utero a sviluppare un attaccamento emotivo con la madre  imparando a riconoscerne la voce e l’odore. Dopo la nascita, nei periodi di veglia vigile, il neonato è portato a ricercare e preferire la voce e il volto umani, specie gli occhi, e ciò favorisce il verificarsi di interazioni faccia a faccia caratterizzate dall’espressione di emozioni (Schaffer 1998; Trevarthen, 1997). In particolare il lattante può produrre espressioni facciali endogene e, successivamente, esogene che evocano nell’adulto emozioni corrispondenti. Il sorriso esogeno è in grado di stimolare interazioni faccia a faccia emotivamente piacevoli e successivamente verrà rivolto preferenzialmente alle persone familiari e si sincronizzerà con quello del partner all’interno di una interazione caratterizzata da reciprocità (Camaioni, 2001). Secondo Trevarthen e Aitken (2001) l’intersoggettività si presenta nel momento in cui il soggetto è in grado di comprendere l’altro intimamente, di agire insieme a lui e condividere l’esperienza. La comunicazione interpersonale, come ogni altro comportamento, è volontaria, i suoi effetti vengono anticipati e controllati da feedback, ed entrambi i partner parteciperanno ad un controllo mentale reciproco per poter predire cosa l’altro conoscerà e farà. Per essere in grado di effettuare questo tipo di controllo verso gli altri è necessario innanzitutto che una persona sia in grado di soggettività e cioè che sia in grado di mostrare atti coscientemente regolati, di essere un agente attivo, di padroneggiare le difficoltà con gli oggetti e le situazioni autonomamente, predicendo l’evoluzione delle situazioni e le conseguenze delle proprie azioni e che dimostri ciò attraverso delle azioni intellegibili. Inoltre, per comunicare, una persona deve essere in grado di riconoscere questo controllo soggettivo anche negli altri e dimostrarlo attraverso l’intersoggettività. La capacità di imitare sia espressioni che suoni umani fin dalla nascita costituisce un comportamento finalizzato a funzioni interpersonali; infatti nell’imitazione si verifica una influenza emotiva reciproca di stati motivazionali nei quali alcune espressioni emotive salienti dell’altro sono identificate e ripetute all’interno dell’interazione in corso dove possono essere utilizzate come affermazioni, assensi o commenti rispetto all’altro. Nel bambino piccolo l’imitazione serve a qualificare una relazione di attaccamento identificando l’altro come in grado di provare degli affetti. L’imitazione mostra anche la motivazione infantile verso la comunicazione in quanto ha l’effetto di creare un legame fra i comunicatori, fornendo la sensazione che si abbiano delle caratteristiche in comune. Il bambino, per poter imitare, compie prima uno sforzo di osservazione e poi cerca di riprodurre quanto osservato tentando più volte, appare quindi come motivato ad imparare qualcosa di nuovo che appartiene ai comportamenti sociali. I bambini piccoli sembrano essere particolarmente attratti dal ‘motherese’ che assume le caratteristiche di una musica o una poesia creando cambiamenti ciclici di narrazioni di emozioni. Secondo Trevarthen e Aitken (2001) si potrebbe supporre l’esistenza della presenza di una musicalità preverbale o subverbale alla base della comunicazione delle emozioni e sensazioni. I bambini sono in grado di discriminare le forme melodiche sottostanti le inflessioni della voce materna e ciò rende possibile un primo livello di comunicazione emozionale. Parlare al bambino lentamente, modulando le espressioni e la voce, fornisce molte informazioni sull’attività, interesse, emozione ed intenzione del parlante, rendendo meno importante la comprensione del significato delle parole. Questo tipo di comunicazione attrae l’attenzione, comunica affetto, facilita le interazioni sociali e l’acquisizione del linguaggio. Con lo sviluppo del focus visivo e delle capacità di indirizzare e mantenere l’attenzione, sono possibili le protoconversazioni caratterizzate per il sincronismo negli scambi vocalici, di espressioni e gestuali in interazioni diadiche faccia a faccia. Questi scambi vengono definiti intersoggettività primaria in quanto vi si può notare una prima comunicazione empatica fra genitore e bambino. Con lo sviluppo ulteriore delle capacità di attenzione, discriminazione e manipolazione, il bambino diventa in grado di prestare attenzione anche per gli oggetti e cambia il suo comportamento nelle interazioni con i genitori. Dopo i 3 mesi nelle protoconversazioni subentrano anche i giochi col corpo, le rime e le nenie, le canzoni e i giochi rituali all’interno delle routine. Tutte queste novità nelle interazioni sono caratterizzate da regolarità e ripetizioni di sequenze quali gesti della mano, suoni, espressioni e sguardi altamente predicibili che comportano energia emozionale ed eccitamento nel bambino. A 4 mesi i bambini appaiono particolarmente interessati ai cambiamenti di stato d’animo dei familiari, mentre diventano sempre più attivi nelle protoconversazioni assumendo il ruolo di leader, avviando e indirizzando l’andamento dei giochi e delle interazioni, e mostrando sempre maggiori capacità di anticipazione sull'interazione. Anche la stimolazione da parte dei genitori si modifica; infatti man mano che il bambino è maggiormente in grado di attenzione e partecipazione, i genitori propongono giochi più vivaci. Lo stato d’animo della madre, poi, si modifica col modificarsi di quello del bambino; ad esempio tende ad agire come un calmante quando il bambino è irritato, modulandone lo stato emozionale attraverso canzoni e manipolazioni tattili. Sembra che i bambini, più che al tono delle canzoni, siano interessati all’aspetto emozionale veicolato dalla voce e dal contatto che deriva dalle manipolazioni. La condivisione dei ritmi con l’adulto durante i giochi e le protoconversazioni sembrano quindi il frutto della condivisione empatica di emozioni. Il maggior interesse mostrato per gli oggetti da parte dei bambini di 6 mesi consente il loro inserimento all’interno dei giochi e, in questo modo, il bambino ha la possibilità di imparare molto degli oggetti che esplora grazie all’esperienza sociale che ne deriva. Verso gli 8-9 mesi, quando è in grado di consapevolezza persona-persona-oggetto, oltre alla motivazione verso l’essere consapevole o fare qualcosa con l’oggetto, subentra anche la motivazione ad essere consapevole con le persone e comunicarvi. In tal caso si parla di intersoggettività cooperativa o intersoggettività secondaria caratterizzata dalla comunicazione circa un terzo, un argomento, nella quale però non è trascurata la più intima comprensione degli stati interni dell’altro. A questa età si sviluppa anche l’attaccamento alla madre e la paura dell’estraneo che si manifestano con comportamenti di attiva ricerca e richiamo della vicinanza della madre, specie in presenza di un estraneo. Questo comportamento per Trevarthen e Aitken (2001) dimostrerebbe la capacità del bambino di apprendere simboli e significati condivisi socialmente che gli consentirebbero di riconoscere un familiare da un estraneo. Nel primo anno la comunicazione è motivata più che altro dall’opportunità di prender parte alle interazioni con le emozioni che le accompagnano; i bambini sembrano giocare con le narrazioni di emozioni ancor prima di imparare a parlare e le intonazioni emotive nelle loro produzioni vocali sembrano preparare la strada per l’acquisizione del significato delle parole. Fra i 2 e i 3 anni la comparsa delle parole sembra dipendere dalla motivazione a comunicare su un argomento, a condividere l’attenzione su narrative che riguardano l’esperienza anche di ciò che non è immediatamente presente, esplorandone idee e sensazioni. Si può notare quindi come l’aspetto emotivo delle narrazioni assuma un ruolo molto importante nella motivazione all’acquisizione del linguaggio. L’aspetto innovativo di quanto introdotto da Trevarthen e Aitken per la comprensione dello sviluppo del linguaggio è caratterizzato dal considerare quest’ultimo semplicemente un mezzo che viene sviluppato allo scopo di raggiungere comunicazioni caratterizzate da comprensione e condivisione empatiche più complesse.

 

Correlazioni fra sviluppo del linguaggio e sviluppo cognitivo.

In anni relativamente recenti Nelson (1996) ha proposto un modello teorico dello sviluppo cognitivo secondo il quale questo deriverebbe dalla conoscenza sugli eventi formulata in termini di mental event representations (MERs) e narrazioni. Secondo lei con l'emergere del linguaggio le MERs formerebbero le basi per acquisire le narrazioni su eventi specifici e, attraverso la guida anche dell'adulto, le memorie di eventi individuali del bambino diventerebbero storie condivise che incorporano sequenze di azioni, emozioni, motivazioni e valutazioni. Queste acquisizioni consentirebbero lo sviluppo di ulteriori capacità cognitive. Si può notare che nella sua teoria ritroviamo le ipotesi di Vygotsky (1954) secondo le quali lo sviluppo del linguaggio sia fondamentale per un ulteriore sviluppo cognitivo, il linguaggio abbia fin dall'inizio un sostanziale scopo comunicativo e le interazioni con l'adulto e la sua guida siano molto importanti sia per lo sviluppo del linguaggio sia, di conseguenza, per lo sviluppo cognitivo. Però Nelson formula una teoria sullo sviluppo cognitivo basata sul concetto di script, e si focalizza particolarmente sulla capacità di narrare sia a se stessi, infatti studia particolarmente i monologhi (Nelson, 1989),  sia agli altri. Secondo Nelson (1996) nello sviluppo cognitivo, il compito primario che il bambino deve affrontare alla nascita è quello di dar senso all’ambiente in cui vive per poter prendere parte alle attività che lo circondano, ciò avviene attraverso l’esperienza di partecipazione alle interazioni all’interno del proprio gruppo sociale. La differenza con la teoria di Piaget (1972) è che per la Nelson l’accento va posto sulla comprensione e previsione delle azioni piuttosto che sulla formazione di schemi degli oggetti da parte del bambino. Come Piaget anche la Nelson (1996) considera la necessità del bambino di costruire conoscenze astratte attraverso le attività concrete come le proprie azioni dirette sull’oggetto, ma ancor più importante è la costruzione di conoscenze astratte attraverso l’interazione con gli altri e le loro azioni. Le astrazioni non sarebbero necessariamente costruzioni logiche o operazioni, ma anche riorganizzazioni di esperienze e generalizzazioni di modelli. I modelli internalizzati di situazioni, formatisi nelle precedenti esperienze, insieme alle caratteristiche della situazione attuale, forniscono il contesto cognitivo per l’azione e per l’interpretazione delle azioni degli altri. All’inizio i modelli o MERs sono rappresentazioni di eventi significativi ripetuti; successivamente vengono generalizzati in un modello del mondo che include persone, luoghi e situazioni costituendo così un sistema complesso di conoscenza. L’esperienza per Nelson deriva dall’agire nel mondo, dalle percezioni, da disposizioni biologiche ad organizzare parti di esperienza in un determinato modo, da interazioni ed attività sociali e da adattamenti culturali. Il bambino può essere visto come un collezionista di dati che serviranno successivamente per la realizzazione di modelli e perfino una teoria per la loro costruzione e la costruzione della conoscenza. Inizialmente le conoscenze del bambino sono mediate dal vivere in un mondo culturalmente organizzato nel quale la maggior parte delle azioni sono dirette dagli adulti che se ne prendono cura; ma c’è anche una parte dell’acquisizione di conoscenze che è diretta. Perché arrivi ad acquisire conoscenze del mondo culturalmente organizzato deve, però,  essere in grado di scambiarle con altre persone attraverso il linguaggio. Il linguaggio presenta contemporaneamente la funzione comunicativa e quella rappresentazionale. La funzione rappresentazionale riguarda sia la rappresentazione della propria esperienza all’esterno per poterla comunicare agli altri, sia quella interna per le funzioni cognitive. La funzione rappresentazionale interna del linguaggio comporterebbe il passaggio ad un nuovo livello rappresentazionale interno, che spiegherebbe gli sviluppi cognitivi che si verificano nella seconda parte del periodo prescolare. La Nelson si rifà alla teoria di Karmiloff-Smith (cit. in Nelson, 1996) secondo la quale le capacità rappresentazionali a livello base sarebbero procedurali e non simboliche o preposizionali. Le procedure sarebbero costruzioni interattive per la risoluzione dei problemi che rappresentano la conoscenza diretta costruita attraverso l’interazione con l’ambiente. Le rappresentazioni, quindi, non emergerebbero solo successivamente nel corso dello sviluppo come ipotizzato da Piaget. Secondo questa teoria possono presentarsi livelli rappresentazionali differenti nei diversi domini di conoscenza come quella fisica, del linguaggio, del disegno ecc. I cambiamenti cognitivi comportano lo spostamento dal livello procedurale al livello computazionale, dove le procedure possono essere ricombinate o divise, fino al livello consapevole dove il soggetto può consapevolmente manipolare le procedure o riflettere su di esse. Quello che cambia, quindi, sono i tipi di rappresentazioni disponibili per il sistema cognitivo all’interno di un determinato dominio di conoscenza, e non le operazioni del sistema stesso. Secondo questa teoria il sistema cognitivo si auto-organizza guidato dai successi; quando una procedura diventa automatica può venire analizzata nelle sue parti ed integrata con altri sistemi. Importante è, quindi, il processo di ridescrizione ed esplicitazione secondo il quale viene reso esplicito ad un livello più alto quanto era implicito ad un livello più basso. Secondo Karmiloff-Smith lo sviluppo all’interno del linguaggio è simile agli altri sviluppi cognitivi, mentre in aggiunta la funzione rappresentazionale del linguaggio consentirebbe il passaggio ad un nuovo livello di comprensione rappresentazionale. Un aspetto non condiviso da parte di Nelson circa la proposta di karmiloff-Smith è il suo focalizzarsi sui diversi domini specifici dello sviluppo cognitivo, osservati separatamente perdendone così una visione d’insieme e circa le interazioni fra loro. Per Nelson inizialmente il bambino partecipa alle attività anche senza comprenderle pienamente per molto tempo, ma lo fa attivamente ed è lui a costruirne la conoscenza sia grazie alla propria attività cognitiva, sia grazie alle interazioni col mondo sociale. In tutto ciò il linguaggio consente al pensiero di emergere nei termini di discorso interno, lo struttura in categorie e relazioni proprie e lo articola e manipola. Pertanto quando il linguaggio viene acquisito provoca dei cambiamenti nella cognizione. Per comprendere le interazioni fra linguaggio e rappresentazione Nelson abbraccia la teoria di Donald (cit. in Nelson, 1996; Rollo, 2007) secondo la quale inizialmente le rappresentazioni sarebbero in termini di eventi ed episodi, e nei primi tre anni si verificherebbe il passaggio verso la rappresentazione attraverso la mimesi delle azioni rilevanti nel mondo reale con chiaro scopo di rappresentazione sociale. La mimesi riguarda ad esempio le routine, i giochi di imitazione e quelli simbolici. Il linguaggio, sia nella rappresentazione episodica che mimetica, non ha funzione rappresentativa, ma entra a far parte degli eventi e delle mimesi come un accessorio che contribuisce alla loro realizzazione. Attraverso l’esperienza degli eventi il bambino impara a conoscere il mondo, gli oggetti, le loro caratteristiche, l’uso che se ne può fare, e a conoscerli con le loro componenti necessarie e le sequenze che li caratterizzano e a generalizzarli. Con l’emergere del sistema di mimesi subentrerebbe una rappresentazione simbolica, ossia una rappresentazione di oggetti e situazioni provenienti dal mondo pragmatico ma che non sono connesse alla realtà di quel momento. Questo tipo di rappresentazione si presenterebbe già nel gioco sociale, ancor prima del gioco simbolico, costituito da interazioni semplici come nel gioco del “cucù”, dove il bambino rappresenta simbolicamente delle sequenze di azioni conosciute che però in quel momento non sono collegate al mondo reale. La rappresentazione dell’evento familiare consente poi, nel gioco di finzione, di definire attraverso una sequenza di azioni il ruolo assunto dall’oggetto. Sia nella rappresentazione di eventi immaginari che in quella di eventi reali è necessario che il bambino sia in grado di trattenere nella mente delle azioni potenziali non ancora realizzate e, quindi, simbolizzate come nell’imitazione differita. Sia il sistema rappresentazionale di eventi non simbolico che quello di mimesi simbolica costituiscono dei sistemi rappresentazionali prelinguistici che sosterrebbero l’apprendimento del linguaggio e il successivo passaggio al sistema rappresentazionale linguistico. Il linguaggio emerge all’interno della diade genitore-bambino nella quale, nonostante inizialmente il bambino non possieda il sistema simbolico, il genitore fa da guida e consente la comunicazione. Il genitore indirizza l’attenzione del figlio verso aspetti del mondo esterno ritenuti salienti e, attraverso la condivisione delle routine, dei giochi e degli scambi, consente la sperimentazione della condivisione di significati. Grazie alla mutualità e agli scambi empatici sviluppatisi nella fase preverbale, quando il bambino comincia le sue produzioni verbali il genitore sarà portato ad interpretarle come adattate alla situazione di eventi condivisi in quel momento e il bambino potrebbe essere portato ad inserire i suoni appropriatamente nella situazione. Con l'emergere del linguaggio le parole del bambino saranno adattate agli scambi nelle routine e giochi con l’adulto. In questo modo il bambino passa da un modello del mondo costruito individualmente in termini di eventi, ad un modello che prevede la scomposizione di questi eventi nelle loro componenti così come gli sono presentate socialmente e culturalmente dall’adulto. In questo processo di decomposizione il linguaggio, che prima era parte integrante degli eventi rappresentati, viene ora utilizzato per etichettare le parti degli eventi ed entra in gioco, assieme alle routine, nel processo di ricomposizione degli eventi rappresentati. Con il linguaggio simbolico, poi, per il bambino si apre una finestra sulla mente degli altri che comporta sia l’emergere della psicologia ingenua, sia l’accesso ai sistemi teorici formali. Per Nelson (1996) il linguaggio come mezzo di rappresentazione sviluppa attraverso una sequenza di stadi nei quali la rappresentazione per gli altri e quella per se stessi sono in relazione tale che lo sviluppo dell’una comporta anche quello dell’altra. Al livello 1 detto indifferenziato, intorno ai 2 anni, la rappresentazione è basata solo sull'esperienza diretta e le esperienze del linguaggio fanno parte delle rappresentazioni di situazioni specifiche e possono essere utilizzate al loro interno. Queste forme linguistiche restano legate all'evento nel quale sono state apprese e possono essere utilizzate per indicarlo tutto o le sue parti, e possono essere generalizzate agli eventi che presentano le medesime caratteristiche; però la loro forma e contenuto resistono all'influenza proveniente da altri input. Le parole apprese, quindi, restano legate al modello del mondo del quale facevano parte e non vanno a formare un sistema a sé. Questi modelli possono incorporare le rappresentazioni socio-mimetiche di Donald e schemi di eventi di base; entrambi sono sociali e simbolici ma non ancora linguistici. Alla fine del 2° anno si presenta il livello 2, detto di trasformazione, nel quale il bambino diventa capace di trasformare alcune parti o aspetti delle proprie rappresentazioni mentali in forma verbale per poterli comunicare. Il bambino diventa in grado di utilizzare il linguaggio per modificare il racconto su un evento passato, di anticiparsi il futuro e di immaginare l'irreale. Le rappresentazioni, però, non sono ancora aperte ad input provenienti da ogni esperienza diretta; il bambino può interpretare e rispondere ai commenti e alle domande riguardo gli eventi passati e presenti, ma non può correggere le proprie rappresentazioni nelle risposte. Successivamente, quando acquisirà capacità di astrazioni dettagliate ed estese, memoria per gruppi di informazioni e forme grammaticali e lessicali (es. temporali, causali e di riferimento intertestuale) tali da poter compiere interpretazioni di discorsi connessi, entrerà nel livello 3 di apertura al linguaggio. In questo livello il bambino può interpretare le rappresentazioni linguistiche degli altri lungo il corso di un dialogo e prendervi parte basandosi sulle proprie rappresentazioni mentali dello stesso evento. Le rappresentazioni a questo punto sono composte da rappresentazioni di eventi, mimesi sociali e forme linguistiche incastonate in esse. Le rappresentazioni linguistiche degli altri possono essere confuse con quelle mentali proprie, ma il bambino, a causa delle restrizoni del sistema base di rappresentazione di eventi, non potrà mantenere due rappresentazioni differenti dello stesso evento collocato nello stesso tempo e spazio se non al livello 4 del modellamento del linguaggio. A questo è in grado di incorporare le rappresentazioni linguistiche di un altro in una nuova rappresentazione mentale, le rappresentazioni possono essere mantenute in maniera duratura in forma linguistica sia che siano linguistiche sia che siano mentali, non confonde più le roprie rapprsentazioni mentali con quelle linguistiche degli altri e due rappresentazioni contrastanti di uno stesso evento possono esistere contemporaneamente ed essere comparate grazie all'esistenza di un doppio livello di rappresentazione: non più solo evento-mimetico ma anche immaginativo e verbale. Utilizzando le rappresentazioni linguistiche per costruire nuove rappresentazioni mentali degli eventi di cui ha fatto esperienza, potrà ragionarci sopra, alla luce di nuove esperienze e delle rappresentazioni linguistiche degli altri, per modificarle. Un aspetto rilevante dello sviluppo del linguaggio è legato all'apprendimento del significato delle parole e del discorso. In una conversazione il parlante compie delle inferenze circa l'ambiente cognitivo dell'ascoltatore, ossia sulle sue conoscenze ed esperienze in quel momento, e adatta le proprie produzioni linguistiche in base a queste perché siano rilevanti nel discorso per l'ascoltatore. Anche l'ascoltatore, per interpretare il messaggio formula degli assunti sulla rilevanza delle parole per la situazione presente, ossia se includono il discorso precedente, se sono rilevanti per il proprio ambiente cognitivo e per i propri assunti sull'ambiente cognitivo del parlante. In questo modo il significato di una parola può cambiare a seconda del discorso nel quale è inserita e degli ambienti cognitivi dei parlanti in quel momento. Per Nelson (1996) inizialmente nel dare senso alle parole i bambini sono aiutati dai contesti familiari, infatti a 2 anni rispondono meglio e producono costruzioni linguistiche più complesse quando parlano di situazioni familiari. Ciò supporta l'ipotesi che a questa età siano presenti i livelli 2 e 3 della rappresentazione dove questa è ancora per rappresentazione mentale di eventi. Il significato delle parole, sia per il bambino che per l'adulto, viene estratto dal contesto nel quale sono usate in quel momento. La nuova forma linguistica viene appresa, insieme alle sue relazioni con le altre forme linguistiche, sia all'interno del contesto della frase che del discorso più esteso. Le parti del discorso, grazie anche all'aiuto offerto dal contesto extralinguistico, entreranno a far parte di rappresentazioni di eventi da parte del bambino includendo ciò che per lui è rilevante. Ad esempio nel contesto della frase il bambino potrebbe apprendere la co-occorrenza di forme come di un soggetto e un verbo. Sulla base dell'uso di una forma da parte degli adulti in un contesto identificabile, il bambino può costruire una regola per il suo utilizzo nei discorsi ed usarla nelle chiusure di formati sintattici contrastanti con altre forme. L'uso della forma in questi ultimi casi consente al bambino di apprenderne gli usi da parte di altri e di comprendere meglio il contesto di significati che rappresenta. La forma quindi subisce un periodo di risistemazione assieme ad altre forme ad essa sintatticamente correlate e, perché il bambino raggiunga la piena comprensione di una forma, possono essere necessarie diverse risistemazioni ed ogni forma può seguire diverse varianti di questo percorso. Le nuove forme apprese possono servire a stabilire nuove rappresentazioni di concetti culturali; ad esempio imparando ad usare parole come “chiamare”, “aiuto” e “perché”, il bambino articola delle nozioni di comunicazione, relazione e intenzione che possono costituire delle novità rispetto al sistema implicito delle MERs. Imparando le parole, quindi, si impara a pensare in forme culturali e il bambino passa dal pensare individualmente al pensare culturalmente. La memoria è la base per la formazione delle MERs ma le capacità mnestiche dei bambini piccoli sembrano presentare alcune differenze rispetto a quelle dei bambini in età scolare e degli adulti. I bambini in età prescolare sembrano avere capacità di ricordare eventi e informazioni pari a quelle degli adulti solo se fortemente motivati e per informazioni molto familiari e in contesti familiari. Come rilevato in uno studio sulle registrazioni dei monologhi spontaneamente prodotti prima di andare a dormire da una bambina di 2 anni (Nelson, 1989), le loro memorie riguardano preferenzialmente episodi delle routine quotidiane o variazioni in queste, più che un evento particolarmente significativo che un adulto definirebbe invece come memorabile; per questi ultimi episodi i bambini sembrano mostrare solo memorie frammentarie. Anche per la memoria autobiografica il bambino mostra prestazioni migliori per eventi molto familiari e per i quali è motivato ad essere attento e ricordare. I bambini di 3 e 4 anni tipicamente raccontano le loro esperienze attraverso storie delle quali le sequenze riflettono quelle dell'evento delimitate dall'inizio e la fine. Queste capacità sembrano avvalorare l'ipotesi dell'esistenza di MERs come strutture rappresentazionali di base. Le memorie della prima infanzia, però, vengono dimenticate in anni successivi e sembra che siano più finalizzate a preservare informazioni sugli eventi routinari o salienti nell'organizzazione dell'esperienza individuale del bambino e, quindi, che entrano a far parte del suo modello del mondo. Sembra, poi, che bambini le cui madri sono abituate a parlare loro costruendo delle storie rispetto alle loro esperienze e lo invitano a partecipare a questa costruzione, imparino in un certo senso a “narrativizzare” l'esperienza, ossia a riprodurre una memoria sequenziale dell'evento e a parlarne attraverso  narrazioni, rispetto ai bambini che non usufruiscono di questo stile comunicativo da parte dei genitori. Questo  tipo di stimolazione diventa particolarmente importante nello stabilirsi di una memoria autobiografica che viene costruita attraverso un processo collaborativo fra genitori e figlio di ricostruzione linguistica di episodi esperiti. Per poter ricordare e comprendere un episodio è prerequisito fondamentale la conoscenza degli eventi generali di base; infatti la conoscenza basata solo sull'esperienza diretta di quanto sta accadendo sarebbe molto caotica. Nella conoscenza degli eventi il bambino deve contenere nella mente contemporaneamente la sequenza degli eventi, caratteristiche di temporalità e causalità e il coinvolgimento di sé e gli altri. La creazione di questi script ricordati diventa fondamentale per agire nel presente ed anticiparsi il futuro sulla base della probabilità con la quale un determinato evento può avere una determinata evoluzione. Proprio a tal fine il tipo di memoria più utile è quello delle condizioni ricorrenti e routinarie. Nelson (1996) ipotizza che una nuova esperienza incontrata dal bambino porti inizialmente alla costruzione di uno schema all'interno di un sistema di memoria episodica, che tratterrebbe la traccia mnestica solo per un tempo limitato che può andare da 6 mesi a un anno e mezzo. Solo se questa traccia venisse rinforzata col successivo ripresentarsi di episodi simili subirebbe un processo di integrazione all'interno di un sistema di memoria generico, altrimenti verrebbe dimenticata. Ciò sarebbe importante per la formazione di una memoria autobiografica la cui funzione sarebbe quella sociale di mostrare le proprie esperienze agli altri per condividerle ma anche la costruzione di una storia personale  con una definizione del concetto di sé e della propria storia sociale come membro di una famiglia e di una comunità. Per fare ciò il bambino viene guidato dall'adulto negli scambi comunicativi sul ricordare insieme un evento, in questo modo coordina le proprie rappresentazioni mentali dell'evento con quelle linguistiche dell'adulto e apprende cosa per l'adulto è rilevante ricordare, comincia a ragionare sulla prospettiva dell'altro per poterla assumere quando costruisce la propria rappresentazione linguistica dell'evento per renderla comprensibile ed interessante, apprende informazioni sul formato narrativo col quale andrebbe comunicato l'evento e su come andrebbe ricordato. La rappresentazione verbale di un'altra persona viene anche utilizzata per rinforzare una propria rappresentazione perché venga ricordata a lungo, ma è necessario che il bambino possegga un sistema rappresentazionale linguistico. Poiché quest'ultimo si sviluppa solo alla fine dell'età prescolare, ciò spiegherebbe perché prima di tale età si verifica il fenomeno dell'amnesia infantile. I modelli e le influenze narrative nella prima infanzia aiuterebbero, quindi, a trasformare il sistema di memoria episodica in un sistema di memoria autobiografica. La capacità più in generale di narrare non solo la propria storia autobiografica a se stessi e agli altri, ma anche di narrare una storia fantastica e di interpretare una narrazione o una storia ascoltata, sono delle abilità molto complesse che richiedono l'acquisizione di diverse altre abilità sia cognitive che narrative. Il bambino, infatti, deve essere in grado di progettare in forma linguistica lo svolgersi di una serie di eventi includendo relazioni temporali e casuali fra di essi; in maniera più estesa deve anche essere in grado di connettere dei discorsi attraverso il linguaggio e di comprenderne la connessione; di distinguere le forme note e attese dello svolgersi degli eventi da quelle inattese e distinguere gli eventi fra necessari, probabili e incerti; di comprendere ed attribuire differenti prospettive per i personaggi e le loro diverse locazioni temporali e spaziali; di proporre soluzioni culturalmente comprensibili nel risolvere le deviazioni dal corso atteso degli eventi e di riorganizzare e riformulare temi culturalmente significativi. Per connettere i vari eventi nel tempo, così come i discorsi, il bambino deve padroneggiare l'uso di determinate forme grammaticali e un concetto di sequenzialità temporale. Perché il bambino riporti degli eventi in sequenza non basta una semplice referenza a partire da un avvenimento nel passato, il bambino deve contenere nella mente il tempo presente e quindi muoversi lontano da questo verso l'evento iniziale, poi muoversi nuovamente lontano anche da questo per descrivere gli eventi che lo seguono fino ad arrivare all'evento finale. Secondo Nelson (1996) lo sviluppo narrativo potrebbe essere legato allo sviluppo linguistico in maniera reciproca: per produrre e comprendere delle narrative il bambino deve acquisire particolari forme linguistiche, ma anche la pratica con le narrative consente l'acquisizione di dispositivi linguistici centrali nell'uso del linguaggio. La narrativa concerne particolarmente il come le diverse parti vengono coese fra loro per raggiungere la formazione di un tutto e, con lo studio dello sviluppo narrativo, ci si concentra su aspetti di sintassi complessa come le proposizioni relative e subordinate, relazioni temporali e connessioni causali. Secondo quanto osservato in una ricerca (Nelson, 1986), i connettivi per le relazioni temporali e causali fra i 2 e 3 anni inizialmente vengono appresi in una modalità appropriata alle caratteristiche pragmatiche del linguaggio per tenere insieme le diverse parti del discorso senza mantenere una adeguata successione temporale nella costruzione della storia, il bambino non comprende ancora le caratteristiche funzionali dei connettori. Per l'aspetto temporale deve essere in grado di collocare l'evento nel tempo e di creare una sequenza temporale delle azioni all'interno dell'evento servendosi delle regole grammaticali relative a forme e tempi verbali e comincia ad apprendere queste regole intorno ai 2 anni. Acquisizioni così precoci dei connettori e dei tempi verbali riflettono lo sviluppo delle abilità cognitive che consentono di disporre in sequenza gli eventi che entrano a far parte delle rappresentazioni mentali.  Secondo Nelson nella costruzione delle storie sia reali che fantastiche da parte dei bambini, inizialmente sarebbero utilizzati come fonti gli script; Infatti, come gli script, spesso queste narrazioni riguardano attività quotidiane e sono prodotte nel tempo presente. Anche per la comprensione delle storie le strutture di script potrebbero aiutare il bambino ad afferrarne la totalità quando uno script familiare è rilevante per essa; mentre dati isolati e parti della storia relati con parti della vita del bambino potrebbero consentirgli di sviluppare una strategia alternativa per comprendere il significato di storie la cui totalità è meno comprensibile. Le narrative sono fondamentali per la socializzazione e la trasmissione delle conoscenze sociali e culturali del mondo in cui il bambino vive. Oltre ad apprendere nozioni sul tempo, lo spazio, la geografia, la storia, la religione e così via, grazie alle narrative il bambino apprende anche come interpretare azioni e intenzioni degli altri e a riflettere sul sé. Il suo mondo esperienziale risulta molto allargato grazie alle narrative ed è anche rappresentato in storie, con la conseguente possibile confusione fra reale e irreale e fra la propria storia e quella degli altri. Lo sviluppo della narrazione sembrerebbe, quindi, fondamentale per lo sviluppo psicologico del bambino in età prescolare. Il linguaggio è basato su strutture categoriali come ad esempio categorie di fonemi, di classi grammaticali e di significati di parole. Per l'acquisizione del linguaggio, quindi, è fondamentale che il bambino sviluppi anche le capacità cognitive di categorizzazione intese come capacità di raggruppare degli elementi in base ad alcune caratteristiche, considerando che ogni oggetto può possedere diverse caratteristiche e quindi far parte contemporaneamente di diverse categorie. Secondo la Nelson e la sua ipotesi del concetto centrale e funzionale, i bambini formerebbero concetti sugli oggetti per la funzione che hanno nelle loro vite dal loro punto di vista formatosi all'interno delle interazioni che hanno col mondo, e la funzione costituisce il nocciolo del concetto. L'apparenza dell'oggetto, ossia la sua forma probabilistica, entrerebbe a far parte del concetto in maniera periferica per consentire al bambino di riconoscerlo rapidamente e riconoscerne il concetto nei suoi istanti. Gli oggetti dei quali il bambino ha formato un concetto sarebbero quelli che impara a nominare più facilmente, in quanto ciò sarebbe alla base dell'attribuzione di significato alla parola. I concetti si riferiscono non solo agli oggetti ma anche agli eventi dei quali il bambino fa esperienza. Gli eventi sono naturalmente strutturati in categorie gerarchiche; infatti un tipo di evento viene distinto dagli altri attraverso l'individuazione delle sue componenti invarianti, ma presenta al tempo stesso altre componenti che possono variare, in tal senso costituisce una categoria di eventi. A sua volta può essere costituito da eventi più piccoli come azioni più semplici che lo compongono, quindi da sottocategorie, e può essere incluso in eventi più generici stabilendo così una gerarchia delle categorie. La possibilità di creare categorie sempre più ampie, sovraordinate e complesse che includano quelle più semplici delle quali il bambino fa direttamente esperienza, è dovuta alla costruzione di categorie dette slot-filler costituite dalle possibili varianti di una componente di un evento che possono essere inserite senza escluderlo dalla categoria. Anche le categorie slot-filler possono essere organizzate gerarchicamente fino ad includere gruppi sempre più ampi della componente in questione. L'esperienza organizzata in questo modo è più di tipo tematico, ad esempio il bambino distingue gli animali incontrati allo zoo da quelli incontrati in fattoria, che secondo categorie astratte come animali selvatici e animali domestici. La categorizzazione astratta non fa parte dell'esperienza diretta del bambino ma è una costruzione teorica che appartiene alla cultura costruita e trasmessa attraverso il linguaggio. Il bambino, attraverso l'esperienza linguistica con adulti che continuamente organizzano il mondo e la conoscenza in strutture categoriali gerarchiche, apprende categorie e organizzazioni incorporate nel linguaggio integrando questi modelli con la propria organizzazione della conoscenza. Un ulteriore aspetto al quale è legato strettamente il linguaggio è la comprensione degli stati interni, ossia l'attribuzione agli altri di stati che non si possono osservare direttamente ma solo inferire attraverso l'osservazione del comportamento come pensieri, desideri, credenze ed  emozioni. Il fatto che questa esperienza interna non possa essere direttamente confrontata con quella degli altri rende difficile anche all'interno di noi la capacità di conoscerla, distinguerla e formare un concetto su di essa, come difficile è riconoscerla e distinguerla negli altri. Alcune di queste esperienze sono più semplici da condividere anche senza l'uso del linguaggio; infatti nelle esperienze interattive empatiche il bambino impara a distinguere se stesso dagli altri, ma anche a identificare l'altro come simile a sé. L'altro viene ritenuto, quindi, in grado di provare emozioni come le proprie, osservabili nelle espressioni che sono però distinte dalle proprie in quel momento, di provare desideri e intenzioni intuibili facilmente dal suo comportamento e che possono consentire anche di prevederlo. Allo stesso tempo distinguendo emozioni, desideri e intenzioni nell'altro, il bambino è in grado di comprenderle in se stesso e di conoscersi. Ci sono, però, stati interni che possono essere conosciuti solo con il linguaggio, comunicandoli, e sono credenze, pensieri e immaginazioni. Ciò comporta, con l'esperienza, una ulteriore differenziazione fra il bambino e l'altro, in quanto all'altro non vengono più attribuite le credenze, i pensieri e le immaginazioni proprie. Dai 3 ai 4 anni, quando il bambino inizia ad usare il linguaggio come forma narrativa, è per lui possibile comparare le proprie esperienze e pensieri con quelle degli altri e rifletterci sopra. Secondo Nelson (1996) è come se inizialmente la distinzione fra se e l'altro fosse implicita e solo con lo sviluppo del linguaggio diventasse esplicita. Non c'è bisogno di ricordare quanto sia importante la comprensione degli stati interni degli altri per le interazioni sociali e come questa costituisca una competenza sociale.

 

Disturbo specifico del linguaggio: aspetti emotivi e cognitivi.

Il disturbo specifico del linguaggio o DSL è un disturbo del linguaggio di tipo primario  caratterizzato da una significativa limitazione nella competenza linguistica nonostante non siano presenti altri fattori che generalmente l'accompagnano e/o giustificano. Per la diagnosi, infatti, vengono utilizzati perlopiù criteri di esclusione che consentano di distinguerlo da altri disturbi che presentano anche disturbi nel linguaggio. Una volta appurato che il bambino ottiene prestazioni significativamente inferiori alla media nei test di linguaggio adeguati all'età di sviluppo, ossia punteggi inferiori ad 1,5 deviazioni standard, si andranno ad escludere altre cause come un deficit cognitivo, il QI infatti deve essere uguale o maggiore ad 85, disturbi dell'udito come sordità o ipoacusia, disfunzioni neurologiche come epilessia, paralisi cerebrale o lesioni cerebrali, anomalie strutturali nell'apparato orale o anomalie nella motricità oro-bucco-linguale, e sintomi di alterate capacità psicofisiche con restrizioni di particolari abilità o importanti disturbi della vita di relazione. L'unica anomalia consiste in una significativa alterazione o restrizione delle capacità linguistiche. Il disturbo può essere di natura solo espressiva o sia recettiva che espressiva e può consistere in un disturbo della componente fonologica o difficoltà lessicali con abbondanza di espressioni deittiche e generiche. Le frasi possono risultare contratte e sconnesse, prive di legami di coordinazione o subordinazione, e le narrative possono contenere gli elementi essenziali di una storia ma organizzati in sequenze inappropriate con riferimenti pronominali non chiari e mancanza di elementi di coordinazione degli enunciati. Ciò che è limitato è la capacità di codificare più che quella di articolare i suoni (Camaioni, 2001). Un DSL può comportare delle difficoltà relazionali e il bambino può rifugiarsi anche in un rapporto di tipo simbiotico con la madre, che diventa l'unica ad essere in grado di comprendere le sue produzioni verbali e che, a sua volta, cerca di proteggerlo dalle frustrazioni derivanti dal non comprendere e il non essere compreso. Tutto ciò si ripercuote nel rapporto con i pari per cui questi bambini tendono o ad isolarsi e rifuggire le relazioni con loro, specie se implicano l'uso del linguaggio, o a manifestare comportamenti aggressivi dovuti proprio alle difficoltà nel comunicare in altro modo (Camaioni, 2001). Fujiki e coll. (2002) affermano che la regolazione emotiva e lo sviluppo del linguaggio sono collegati e in un bambino con DSL una difficoltà nella regolazione emotiva può comportare l'acuirsi delle difficoltà relazionali già legate dalle difficoltà linguistiche. La regolazione emotiva consiste nella capacità di monitorare, valutare e modificare le proprie reazioni, specie nell'intensità e temporalità, per raggiungere un obiettivo. L'emozione può essere regolata nell'input, nella fase centrale e nell'output. Quindi è necessario saper prestare attenzione cosciente nel focalizzarsi e reinterpretare gli eventi interni, comprendendo i propri cambiamenti neurofisiologici e intraprendendo l'accesso alle risorse di coping al fine di modificare la risposta comportamentale in base ai propri obiettivi. La regolazione delle emozioni è legata al linguaggio: è proprio attraverso l'esperienza di sentir parlare gli adulti di emozioni che il bambino impara ad etichettarle, distinguerle e riconoscerle dentro di sé. Attraverso il sistema rappresentazionale il bambino diventa in grado di rappresentarle e, attraverso il linguaggio, ragionarci sopra, compararle ad altre emozioni, integrarle nel contesto e, quindi, regolarle. La regolazione emotiva, a sua volta, può influire sulla partecipazione del bambino a contesti relazionali che sono importanti per l'acquisizione del linguaggio. Fujiki e coll. (2002) hanno cercato di verificare se bambini con DSL presentassero delle difficoltà nella regolazione di emozioni. A tal proposito hanno condotto inizialmente uno studio su bambini con DSL divisi per età dai 6 ai 9 anni e dai 10 ai 13 anni. Alle insegnanti hanno chiesto di valutare il comportamento di regolazione emotiva usando l'Emotion Regulation Checklist. I bambini con DSL presentavano minori capacità di regolazione delle emozioni rispetto al gruppo di controllo per entrambi i gruppi di età e sopratutto se maschi. Successivamente, in uno studio simile (Fujiki e coll., 2004), gli autori hanno riscontrato che sia il punteggio ottenuto nella regolazione emotiva attraverso l' Emotion Regulation Checklist, sia quello relativo alle abilità di linguaggio ottenuto con il Comprensive Assessment of Spoken Language, si dimostravano predittori significativi del comportamento di reticenza, timoroso ed ansioso nelle relazioni, valutato con la Teacher Behavior Rating Scale. Questo risultato è stato riscontrato sia per i bambini con DSL sia per quelli del gruppo di controllo e i due punteggi risultavano avere poteri predittivi simili. Poiché i bambini con DSL, oltre ad avere un deficit nel linguaggio, sembrano presentare delle difficoltà nella regolazione delle emozioni, in quanto anche in questo studio hanno ottenuto punteggi più bassi rispetto al gruppo di controllo, si può supporre che la reticenza non sia solo una conseguenza delle difficoltà comunicative ma anche dell'intersezione fra queste e concomitanti difficoltà nella regolazione delle emozioni. In ulteriori studi (Spackman e coll., 2006; Brinton e coll., 2007; Fujiki e coll., 2008) su gruppi di bambini di età complessivamente comprese fra i 5 e i 12 anni, gli autori hanno testato la capacità di riconoscere le emozioni provate da un personaggio in seguito alle sue esperienze rappresentate da brevi scenari disegnati, o comunicate attraverso gli aspetti prosodici di brevi passaggi narrativi recitati. I bambini con DSL presentavano difficoltà nella comprensione delle emozioni elicitate da uno scenario nonostante lo comprendessero e, pur riuscendo a parlare delle proprie esperienze emotive, manifestavano maggiori difficoltà in questo rispetto ai loro pari del gruppo di controllo. Quando gli scenari presentati prevedevano che il personaggio dissimulasse l'emozione suscitata dalla situazione per rispettare delle regole sociali, pur dimostrando la conoscenza di alcune di queste regole, i bambini con DLS indicavano significativamente meno, rispetto ai loro coetanei del gruppo di controllo, che l'emozione elicitata dagli scenari potesse essere dissimulata dal personaggio; era come se il bambino non tenesse in considerazione le conseguenze che l'espressione dell'emozione poteva comportare per la relazione fra il protagonista e gli altri personaggi. In tal caso gli autori suggerivano la possibilità che ciò fosse la conseguenza della ridotta esperienza nelle situazioni sociali dove poter sperimentare le conseguenze dell'espressione e della dissimulazione delle emozioni. Anche in seguito all'ascolto di narrative brevi, in contesti strutturati in maniera tale da rendere semplice per il bambino la comprensione delle emozioni trasmesse attraverso l'aspetto prosodico di quanto enunciato da degli attori, i bambini con DSL si sono mostrati meno accurati nel riconoscere le emozioni comunicate rispetto al gruppo di controllo, pur non dimostrando proprio una incapacità in questa abilità. Anche in uno studio di Ford e coll. (2003) i bambini con DSL, di età media 5 anni e 9 mesi, sembravano avere difficoltà ad inferire le emozioni di un personaggio dallo scenario nel quale era inserito pur essendo in grado di identificare, sia attraverso la comprensione che attraverso la produzione, le emozioni dalle espressioni di volti disegnati in maniera stilizzata. Gli autori hanno ipotizzato che la difficoltà di questi bambini fosse nella capacità di inferenza, e in particolare nell'integrazione delle proprie conoscenze con il contesto per arrivare ad una inferenza appropriata. I bambini con DSL potrebbero avere, quindi, difficoltà nel processamento delle informazioni. Oltretutto, in questo studio, l'abilità di inferenza, mantenendo costanti i punteggi nelle abilità cognitive valutati con il subtest non verbale del Kaufman Assessment of Battery for Children, era relata all'abilità linguistica valutata con la Clinical Evaluation of Language Fundamentals-Preschol. Ciò farebbe supporre una mediazione linguistica del materiale visivo presentato per testare le capacità di inferenza, materiale costituito invece solo da immagini. Tale mediazione risultava presente sia per i bambini con DSL che per quelli del gruppo di controllo. Poiché, pur presentando punteggi non inferiori ad 85, i bambini con DSL hanno ottenuto punteggi inferiori rispetto a quelli ottenuti dal gruppo di controllo nel subtest non verbale del KABC, gli autori hanno suggerito che anche ciò poteva essere dovuto al fatto che anche in questo caso il compito era mediato linguisticamente. Le difficoltà nella capacità di inferenza possono influire sulle capacità linguistiche in quanto, per comprendere una comunicazione, è necessario integrare le informazioni ricevute con quelle già possedute; in più le difficoltà nell'inferire le emozioni da un contesto possono influire negativamente sulle capacità sociali. Da questi studi emerge non solo che il DSL può influire su alcuni aspetti dello sviluppo emotivo e, di conseguenza, sulle capacità relazionali e sociali di questi bambini; ma anche che probabilmente non riguarda solo il linguaggio, ma è legato a delle difficoltà emotive e cognitive che, però, non sono così gravi da comportare l'esclusione di una simile diagnosi. Questi dati potrebbero avvalorare le ipotesi di Trevarthen circa l'importanza delle emozioni nello sviluppo linguistico. Basti pensare all'importanza delle relazioni precoci e dell'intersoggettività che le caratterizza per lo sviluppo della regolazione emotiva nel bambino e della capacità di riconoscimento delle emozioni nell'altro. A tal proposito altre ricerche sono state svolte nel tentativo di scoprire se vi sia una relazione fra le prime esperienze di scambi principalmente emotivi fra madre e bambino nelle fasi pre-linguistiche e il successivo andamento nello sviluppo del linguaggio. In uno studio longitudinale dei ricercatori del National Institut of Child Care & Human Development (1999) su 1.215 donne e i loro bambini, sono stati valutati i possibili effetti di una depressione materna sullo sviluppo dei bambini a 6, 15, 24 e 36 mesi. Lo studio prevedeva la valutazione delle caratteristiche demografiche e del supporto sociale mediante alcune domande e la somministrazione del Relationship With Other People Scale di Marshall e Barnett (cit. in NICHD, 1999) nelle diverse fasi; la valutazione delle interazioni madre-bambino mediante la vidoeregistrazione in situazioni di gioco strutturato; la valutazione dello sviluppo socio-emozionale del bambino mediante Child Behavior Checklist-2/3 di Achenbach e l'Adaptive Social Behavior Inventory di Hogan (cit. In NICHD, 1999) e attraverso l'osservazione della compliance mostrata dal bambino nell'interazione con la madre quando doveva rimettere a posto un gioco durante le situazioni videoregistrate; infine la valutazione a 36 mesi del funzionamento cognitivo attraverso la Bracken Basic Concept Scale e quella della competenza linguistica attraverso la Reynell Developmental Language Scale. Le madri che non riportavano mai sintomi depressivi erano le più sensibili nei confronti del bambino durante le interazioni, il reddito familiare però agiva come moderatore sugli effetti della depressione materna in quanto madri cronicamente depresse ma con un buon reddito si mostravano più sensibili rispetto a quelle con il medesimo livello di cronicità dei sintomi depressivi ma con condizioni socio-economiche più disagiate. Per quanto riguarda lo sviluppo dei bambini, questi riportavano punteggi sia per quanto riguarda l'essere pronti per l'apprendimento scolastico, sia per la comprensione verbale e il linguaggio espressivo, più bassi se la loro madre presentava sintomi di depressione cronici. Ma era la sensibilità materna, manifestata durante le interazioni nell'arco dei 36 mesi, a mostrarsi come predittore dello sviluppo infantile nell'essere pronti per l'apprendimento scolastico e nella comprensione verbale rispetto alla presenza esclusiva di sintomi di depressione cronica. Gli autori hanno anche notato che sia il sentirsi depresse che la mancanza di sensibilità erano importanti per comprendere i risultati. Sembra che la sensibilità materna sia in grado di mitigare gli effetti del sentirsi depresse da parte delle madri sullo sviluppo dei loro bambini. Madri più sensibili, anche se si sentono depresse, riescono ad avere relazioni con i loro bambini più positive, manifestano percezioni più positive del comportamento del loro bambino e questi ottiene punteggi migliori nello sviluppo del linguaggio a 36 mesi. Anche Stein e coll. (2007) in uno studio longitudinale su 999 madri e i lori bambini con assessment a 3, 10 e 36 mesi hanno ottenuto risultati simili. La depressione materna è stata valutata con la Edimburgh Postnatal Depression Scale quando i bambini avevano 3 e 10 mesi e con il General Health Questionnaire-12 di Goldberg (cit in Stein e coll., 2007); Il caregiving materno è stato valutato mediante l'osservazione di videoregistrazioni di interazioni madre-bambino non strutturate e mediante quanto riportato dalle madri circa le loro attività coi bambini quando questi avevano 36 mesi; il linguaggio dei bambini è stato valutato a 36 mesi con la Reynell Development Language Scale (cit in Stein e coll., 2007). Stein e coll. hanno trovato che la depressione materna nel periodo post-natale, ma non concorrenziale, era associata con la povertà nello sviluppo del linguaggio; il caregiving materno sia post-natale che concorrenziale era associato positivamente allo sviluppo del linguaggio a 36 mesi e lo svantaggio socio-economico era associato con la povertà nello sviluppo del linguaggio. La depressione materna, poi, era associata con la povertà del caregiving che comportava un effetto negativo sul linguaggio a 36 mesi, effetto maggiore nel caso in cui vi fosse anche svantaggio socio-economico. Sembra quindi che il caregiving materno sia vulnerabile alla depressione e allo status socio-economico, e che influisca sullo sviluppo del linguaggio a 36 mesi. Risultati differenti, invece, sono emersi in uno studio di Cornish e coll. (2005) nel quale non sono stati riscontrati effetti della depressione materna sullo sviluppo del linguaggio infantile a 12 e 15 mesi. Gli autori hanno supposto che un tale risultato potesse essere dovuto al fatto che si trattava di famiglie di status socio-economico elevato, nelle quali questo aspetto può aver compensato i possibili effetti della depressione materna sullo sviluppo del linguaggio; oppure i risultati possono essere dovuti all'età troppo precoce nella quale sono state fatte le valutazioni del linguaggio infantile peraltro attraverso un questionario somministrato alle madri (la Bayley Scales of Infant Development-II). Emerge, quindi, l'importanza di relazioni positive e sensibili, nelle quali le madri siano attente nella comprensione delle emozioni del bambino e sappiano regolarle facendogli sperimentare emozioni positive; ciò sarebbe relato al successivo sviluppo del linguaggio. Un recente studio di McArthur e coll. (2008) si è focalizzato sull'ipotesi della presenza di un deficit nel processamento delle informazioni auditive nei bambini con DSL. Questo studio è stato svolto con bambini con Disabilità Specifica di Lettura o con Disturbo Specifico del Linguaggio, divisi per età fra 6 e 8 anni e fra 9 e 15 anni. Il campione è stato sottoposto a test per la discriminazione di frequenza, rapidità del processamento uditivo, capacità di discriminazione di vocali e capacità di discriminazione fra vocali e consonanti. Per la distinzione fra campioni e per escludere la possibilità che vi fossero altri aspetti cognitivi e neurologici ad influenzare i risultati, i bambini sono  stati sottoposti anche alla valutazione dell'intelligenza non verbale mediante il subtest delle matrici del Kaufman Brief Intelligence Test e il subtest Reasoning Matrix della Wechsler Intelligence Scale for Children-4; alla raccolta di dati relativi alla storia fisiologica, neurologica e psicologica sia del bambino che dei suoi familiari; alla valutazione della sensibilità uditiva mediante una visita audiometrica; alla valutazione delle abilità di registrazione fonologica mediante la Castles e Coltheart's Nonword List; alla valutazione della capacità di riconoscere le parole guardandole mediante la Castles e Coltheart's Irregular Word List; alla ripetizione di frasi del Clinical Evaluation of Fundamentals-4 per la valutazione della ricezione ed espressione fonologica, sintattica e semantica e alla ripetizione di non parole del NESPY per la misura del processamento fonologico espressivo e recettivo; al Test of Reception of Grammar 2 per la valutazione della sintassi recettiva e al British Picture Vocabulary Scale 2 per la valutazione della recettività di vocabolario. Tutti i bambini hanno prodotto valide discriminazioni di frequenza, rapidità del processamento uditivo, discriminazione di vocali e discriminazione consonante-vocale; ma i bambini con Disabilità Specifica di Lettura o con Disturbo Specifico del Linguaggio hanno presentato punteggi significativamente inferiori rispetto ai controlli. Sembrerebbe, quindi, che questi bambini presentino difficoltà nel processamento di suoni che occorrono brevemente e rapidamente che potrebbero comportare rappresentazioni instabili dei suoni del linguaggio o fonemi; ciò, a sua volta, sarebbe alla base di difficoltà a percepire le parole pronunciate dalle altre persone e, quindi, limiterebbe la capacità di imparare aspetti fonologici, sintattici o semantici del linguaggio. Alcuni bambini del campione originario con l'uno o l'altro disturbo sono stati sottoposti ad un training di 6 settimane focalizzato sul loro deficit. Per testare il possibile effetto test-retest sono stati utilizzati sia i bambini del gruppo di controllo che bambini che presentavano i disturbi ma non avevano seguito il training, anche se questi ultimi in numero eccessivamente esiguo. Le valutazioni per le abilità di processamento fonologico sono state poi ripetute nella fase post-training e in un follow-up 3 mesi dopo. Sia nella fase post-training che in quella di follow-up, i bambini hanno dimostrato significativi miglioramenti nelle abilità sulle quali si focalizzava il training. Queste non sembravano spiegate da un effetto test-retest in quanto, nonostante fosse stato effettivamente riscontrato un tale tipo di effetto, questo non era statisticamente significativo; e non erano spiegati da un miglioramento nell'attenzione uditiva o nell'abilità a risolvere compiti psicofisici in generale. Nelle fasi di post-training e follow-up i bambini mostravano anche miglioramenti nella lettura, nella produzione linguistica e nello spelling anche se non sembrava che il training consentisse l'acquisizione di nuove abilità in questi ambiti. Gli autori hanno supposto che questo risultato potesse essere dovuto alla brevità del tempo atteso per il follow-up, che poteva non essere sufficiente perchè i bambini fossero già in grado di utilizzare le nuove abilità apprese nel processamento fonologico per l'acquisizione anche di nuove abilità nel linguaggio e nella lettura. In uno studio precedente di van der Lely e coll. (2004) i risultati, però,  sono differenti. Gli autori hanno valutato la risposta a test di discriminazione uditiva per suoni linguistici e non in bambini e adolescenti con Disturbo Specifico del Linguaggio di tipo Grammaticale fra i 12 anni e 5 mesi e 19 anni e 3 mesi, bambini senza disturbi appaiati per età, di età media 7 anni e 4 mesi appaiati col gruppo sperimentale per il Test of Reception of Grammar e il subtest Grammatical Closure del TTPA, e di età media 8 anni e 7 mesi appaiati col gruppo sperimentale per la British Picture Vocabulary Scales. Pur risultando che le performance auditive del gruppo sperimentale lo differenziavano da quello di controllo, gli autori non hanno rintracciato nessuna relazione evidente fra le loro abilità auditive e quelle fonologico/grammaticali. Semmai hanno riscontrato delle relazioni poco consistenti fra la presenza di un deficit di processamento auditivo e le prestazioni grammaticali che, a loro avviso, potrebbe far supporre che sia il deficit nel processamento specifico del linguaggio a colpire le loro performance auditive e non viceversa. Infatti mentre il disturbo del linguaggio di tipo grammaticale si presenta in maniera consistente ed omogenea nel gruppo sperimentale, distinguendolo nettamente da quello di controllo per età e comportando la sovrapposizione solo con le performance dei bambini di 5 anni, questo gruppo non è omogeneo per le performance auditive, e solo nel caso queste siano più basse si distingue dal gruppo di bambini più piccoli appaiati per abilità di vocabolario ricettivo. Un altro aspetto indagato nei bambini con DSL è la cognizione sociale. La cognizione sociale e le abilità sociali sono indispensabili per stabilire delle relazioni interpersonali positive. Per applicare le abilità sociali è importante anche possedere le capacità linguistiche per poter iniziare e mantenere delle relazioni. La cognizione sociale comprende diverse abilità come la capacità di percepire le emozioni, il problem-solving sociale e l'auto-cognizione. Uno studio di Marton e coll. (2005) ha indagato circa le relazioni fra pragmatica sociale, auto-valutazione sociale e competenze linguistiche. Ad un campione di bambini fra i 7 e i 10 anni con DSL gli autori hanno somministrato una serie di scenari ipotetici suddivisi in contesti, entrambi molto familiari per la vita quotidiana dei bambini, sottoforma di immagini, per esaminare direttamente le loro abilità di negoziazione e risoluzione dei conflitti, ed individuare le strategie di coping e reazioni verbali dei bambini, e un test di autostima costituito da domande si/no ricavate dal Culture Free Self-Esteem Inventory. I risultati mostravano che i bambini con DSL ottenevano risultati significativamente inferiori nel compito degli scenari ipotetici, sia per l'aspetto pragmatico che per quello sintattico, rispetto al gruppo di controllo. Oltretutto le performance pragmatiche erano significativamente inferiori rispetto a quelle sintattiche. Quest'ultimo dato è stato riscontrato anche per il gruppo di controllo; anche se i bambini del campione sperimentale mostravano differenze più ampie fra le due performance. Gli autori hanno supposto che le abilità linguistiche dei bambini con DSL non fossero poi così basse perchè avevano seguito per anni trattamenti specifici per il loro disturbo del linguaggio. Qualitativamente, le strategie di coping utilizzate dai bambini con disturbo del linguaggio erano in misura maggiore di tipo non verbale rispetto al gruppo di controllo, sia che si trattasse di strategie adeguate, sia che si trattasse di reazioni aggressive o passivo/introverse. Questi bambini frequentemente manifestavano difficoltà nel comprendere la prospettiva e le necessità dell'altro. Questa abilità è molto complessa e richiede una successione di passaggi cognitivi: definire il problema, generare strategie alternative, selezionare ed implementare strategie specifiche e valutare le conseguenze. Ma analizzare la situazione sociale, individuare gli obiettivi per risolvere un conflitto e programmare e organizzare la situazione per raggiungere gli obiettivi sono delle funzioni esecutive. Dai risultati di questo studio e dall'osservazione dei comportamenti dei bambini, gli autori hanno dedotto  la possibilità che vi fossero delle difficoltà nelle funzioni esecutive nei bambini con DSL. Infatti, oltre alle difficoltà nell'assumere la prospettiva dell'altro, questi bambini usavano delle espressioni verbali che, nonostante la loro correttezza grammaticale, a volte non erano appropriate al contesto. Sembrava, quindi, che avessero difficoltà a pianificare e controllare il discorso in modo da applicare quelle espressioni appropriatamente rispetto al contesto sociale. Queste difficoltà sociali si riflettevano anche sulla loro autostima: manifestavano buoni livelli di autostima accademica ma più bassi livelli di autostima sociale con lamentele di avere pochi amici ed essere spesso soli. Gli autori hanno anche potuto notare che i bambini che ottenevano prestazioni più basse nelle performance sociali riportavano livelli di autostima maggiori rispetto agli altri bambini con DSL. La loro percezione delle loro performance sia accademiche che sociali, confrontate anche con quelle osservate da genitori e insegnanti, erano in netto contrasto con le loro performance reali. Per gli autori ciò poteva denotare un deficit ulteriore nella cognizione sociale costituito da mancanza di conoscenza sociale e mancanza di consapevolezza dei propri limiti. Gli autori hanno ipotizzato che ciò potesse essere dovuto ad una combinazione fra diniego, povertà di giudizio e mancanza di consapevolezza. Anche uno studio di Horowitz e coll. (2005) si è focalizzato sulla capacità di risoluzione dei conflitti da parte dei bambini con DSL. Gli autori hanno videoregistrato e poi codificato delle situazioni di gioco non strutturato per  bambini con DSL dai 4 ai 7 anni in strutture prescolari svedesi per bambini con questi disturbi, e per bambini dai 4 ai 6 anni in strutture prescolari svedesi non specializzate per disturbi. In particolare sono state codificate le cause scatenanti i conflitti, i comportamenti riconciliatori messi in atto nelle fasi post-conflitto, e se questi venivano accettati o meno dal partner. Dai risultati è emerso che i bambini con DSL si riconciliavano meno rispetto ai controlli. I loro conflitti erano causati maggiormente dal comportamento definito aberrance rispetto al gruppo di controllo (comportamenti inappropriati per la loro intensità durante il gioco al punto di non consentirne più la reciprocità o proteste, all'interno di un conflitto già in atto, tali da non essere più dirette verso il partner per uno scambio reciproco, ma crescenti fino a diventare urla e reazioni fisiche).Questi comportamenti implicano difficoltà per la riconciliazione e la conclusione del gioco o conflitto comportando la percezione che questi non abbiano termine; il partner, a sua volta, sperimenta difficoltà crescenti nello stabilire un contatto con l'altro a causa dei suoi comportamenti talmente intensi da impedire l'interazione reciproca. Ed è l'interazione reciproca, invece, che consente lo stabilirsi di comportamenti riconciliatori funzionali. I bambini con DSL si dimostravano inibiti nel cominciare a mettere in atto comportamenti riconciliatori, anche se utilizzavano quasi esclusivamente comportamenti verbali senza compensazioni non verbali, mentre non presentava differenze rispetto al gruppo di controllo nell'accettazione dei comportamenti riconciliatori. La più alta percentuale di conflitti dovuti ad aberrance, secondo gli autori, potrebbe indicare che questi bambini hanno difficoltà nelle mutue interazioni con scambi reciproci e nell'autoregolazione. L'inibizione nel cominciare un comportamento di riconciliazione, poi, potrebbe indicare che questi bambini hanno difficoltà nello stabilire un contatto sociale piuttosto che con l'esecuzione funzionale dei comportamenti riconciliatori; infatti, quando messi in atto, si dimostrano appropriati in quanto vengono accettati dall'altro. Le capacità di regolazione del comportamento e di stabilire un contatto sociale fanno parte della cognizione sociale e sono legate alla capacità di comprendere il punto di vista dell'altro e a quella di programmare i propri comportamenti per raggiungere degli scopi. Recentemente Archibald e coll. (2008) hanno condotto uno studio su bambini con DSL dai 6 agli 11 anni somministrando il test di ripetizione di non-parole di Dollaghan & Campbel, un test di produzione di “past tense”, un compito di percezione categoriale del parlato (che prevedeva la distinzione fra i suoni 'ba' e 'da'), il subtest Digit Recall della Wechsler Intelligence Scale for Children-IV per la valutazione della memoria a breve termine, il Test for Reception of Grammar per la valutazione del linguaggio recettivo , i subtest Word Identification e Word Attack del Woodcock Reading Mastery Test per valutare la capacità di lettura, i subtest Block Design e Matrix Reasoning della WISC-IV per valutare la cognizione non verbale. Dai risultati è emerso che la ripetizione di non-parole e la produzione di past tense erano altamente correlati fra loro e spiegavano significative porzioni di varianza nelle performance alle altre misure. Gli autori hanno evidenziato diverse ipotesi circa il fattore unificante questi due compiti: poiché questa relazione era particolarmente forte quando aumentava la lunghezza delle non-parole e i compiti di past tense riguardavano verbi irregolari, poteva trattarsi di una abilità di memoria; ma l'associazione rimaneva forte anche quando la varianza era spiegata dal compito di memoria a breve termine Digit Recal; in più, solo il compito di past tense era legato al punteggio nel linguaggio recettivo basato sulle conoscenze a lungo termine; un'altra ipotesi è che questi due compiti colpiscano abilità di processamento fonologico di base nonostante non ci fossero associazioni fra questi e il compito di percezione categoriale del parlato; infatti ci sono forti correlazioni fra produzione di past tense e identificazione delle parole e, poiché la fonologia è molto importante per la scrittura, questa potrebbe essere collegata anche alla produzione di past tense. Poiché all'aumentare dell'età sono stati riscontrati miglioramenti nella ripetizione di parole e nel volgere i verbi al past tense, gli autori hanno supposto che ciò possa essere dovuto all'aumentare del lessico che consentirebbe una gestione migliore delle forme atipiche. Le differenze riscontrate fra ripetizione di non-parole e digit recall, nonostante questi due aspetti siano fortemente correlati, potrebbe far supporre l'esistenza di dispositivi differenti per i due compiti. Gli autori fanno notare che la ripetizione di non-parole è in grado di discriminare maggiormente i bambini con DSL rispetto al digit recall. A questo punto nel deficit della ripetizione di non-parole potrebbero essere implicate carenze nelle conoscenze fonologiche a lungo termine che non compromettono le prestazioni nei compiti ripetitivi già noti del digit recall. Oltretutto l'associazione esclusiva fra produzione del past tense, la misura del linguaggio recettivo e l'età, secondo gli autori, farebbe supporre che la produzione di past tense potrebbe essere legata a fattori cognitivi e linguistici differenti da quelli legati alla ripetizione di non-parole. Bishop e coll. (2005) invece hanno riscontrato delle difficoltà di memoria nei bambini con DSL. Questi autori hanno valutato le abilità non verbali e quelle linguistiche di un campione di bambini fra i 7 e i 9 anni con DSL recettivo o espressivo e il gruppo di controllo appaiato per età e QI non verbale. Questo campione è poi stato sottoposto ad un compito di creazione di narrative, osservando due sequenze di figure, per testare come codificavano le figure dal punto di vista dei contenuti e della complessità sintattica. Dopo una latenza di 30-40 minuti hanno chiesto ai bambini di ripetere le storie raccontate precedentemente senza l'aiuto di visionare nuovamente le figure e codificando la necessità o meno di suggerimenti per cominciare o proseguire nel compito. Questa seconda prova aveva l'obiettivo di verificare quanto della storia venisse ricordato. Dai risultati è emerso che i bambini con DSL presentavano difficoltà di codifica e ricordo delle sequenze di eventi delle storie rispetto ai bambini del gruppo di controllo con pari abilità cognitive non verbali. Sembrava, quindi, che le abilità linguistiche fossero più importanti del QI non verbale nell'influenzare la codifica e ripetizione di storie figurate. Oltretutto sia l'uso di sintassi complessa, che quello di termini riferentisi a stati mentali nelle narrative iniziali erano predittivi della successiva capacità di ripetere la storia. Ciò avvalorerebbe l'ipotesi secondo la quale sarebbero le limitazioni sintattiche ad influire sulle limitazioni concettuali. Pertanto i problemi sintattici dei bambini con DSL sarebbero solamente linguistici e non dovuti a problemi concettuali. Però gli autori fanno notare che l'effetto predittivo della complessità delle preposizioni nei confronti della capacità di ripetizione di storie era piccolo e potevano esservi altri fattori implicati nella povertà della memoria. A tal proposito  hanno supposto, per le prestazioni nettamente peggiori riscontrate nei bambini con DSL recettivo, che questi bambini presentino dei deficit di tipo concettuale che vanno oltre quelli linguistici ma che non vengono rilevati coi test cognitivi non verbali. Ciò potrebbe far supporre che siano i disturbi concettuali a influire su quelli linguistici. Riassumendo, pare che degli aspetti cognitivi siano implicati nel DSL, anche se non è ancora chiaro se siano una conseguenza del disturbo linguistico o ne siano all'origine. Considerando la teoria di Nelson circa sviluppo linguistico e cognitivo, è plausibile che difficoltà nell'elaborazione delle informazioni auditive, nella capacità di comprendere gli eventi e, quindi, alterate rappresentazioni di questi e di concetti possono comportare difficoltà nello sviluppo del linguaggio; ma a sua volta questo disturbo limiterebbe lo sviluppo delle nuove abilità rappresentazionali di tipo linguistico e, conseguentemente, la possibilità di sviluppare ulteriormente i concetti, la capacità di ragionamento sulle rappresentazioni, di apprendimento di concetti relativi agli stati interni, tutte capacità fondamentali per la cognizione sociale e la risoluzione dei problemi.  

 

Conclusioni

Il bambino, come affermato da Trevarthen (1997), Schaffer (1998) e Camaioni (2001), nasce predisposto all'interazione, e in particolare sono le emozioni a caratterizzare e motivare le prime interazioni infantili. Proprio per la loro forza motivante, derivante dal grande piacere suscitato nel bambino dalla sensazione di essere compreso e di condividere le proprie emozioni con un altro, questi sarebbe portato a sviluppare capacità di comunicazione durante le fasi prelinguistiche. Per  Nelson (2006) il bambino fin dalla nascita ha anche la necessità di dar senso al suo ambiente per poter prendere parte alle attività e ciò avviene attraverso la partecipazione alle interazioni all'interno del proprio gruppo sociale. Perchè si sviluppi il linguaggio è necessario che il bambino sviluppi anche delle abilità cognitive che, a loro volta, subiscono delle trasformazioni proprio grazie alle abilità linguistiche apprese e, in particolare, grazie alla capacità di narrare; ma sono fondamentali anche le interazioni nelle quali il bambino è coinvolto e l'ambiente comunicativo nel quale è inserito per le stimolazioni necessarie e per le facilitazioni messe in atto dall'adulto nei suoi confronti. Alcune delle abilità cognitive alla base dello sviluppo linguistico sono: la capacità rappresentazionale, che per Nelson nasce dal bisogno di dar senso agli eventi costruendo degli script su ciò di cui fa esperienza ripetutamente, e che diventa più complessa proprio grazie al linguaggio; la memorizzazione, fondamentale per accumulare conoscenze sul mondo e sul linguaggio, per orientarsi nel proprio ambiente, agire nel presente, anticiparsi il futuro, e che consente la capacità di costruire delle narrazioni degli eventi; capacità cognitive di categorizzazione fino alla formazione del concetto che sono fondamentali per l'acquisizione della parola da associare ad esso e, allo stesso tempo, il linguaggio consente di apprendere nuove forme di categorizzazione, anche astratta, tramandate culturalmente; e la comprensione degli stati interni come emozioni, desideri e intenzioni che favoriscono il coinvolgimento nelle interazioni importanti per la stimolazione del linguaggio e, con l'emergere di questo, arrivano anche alla comprensione di credenze, pensieri e immaginazioni.  Molto importante appare la capacità di narrare esperienze della propria vita per ragionarci sopra, integrarle con le narrazioni dell'adulto e sviluppare una memoria autobiografica. In tal modo il bambino può condividere le proprie esperienze con gli altri, assolvendo una funzione sociale, e costruire il concetto di sé come avente determinate esperienze, una storia, e come appartenente ad un contesto familiare e sociale. Nello sviluppo delle narrative in generale nel bambino sono implicati sia lo sviluppo di abilità cognitive, sia l'acquisizione di abilità linguistiche di complessità maggiore. Queste abilità si acquisiscono con la pratica e l'esperienza di narrative all'interno delle relazioni. Ma cosa spinge il bambino ad impegnarsi nell'ascoltare una narrazione o nel cercare di produrla? Anche in questo caso le emozioni suscitate dalla narrazione in se e dalla relazione in atto fra narratore e ascoltatore. Le narrative sono fondamentali per la socializzazione e la trasmissione di ogni genere di conoscenza e Nelson sottolinea come solo grazie alle forme narrative il bambino comincia a comparare i propri pensieri ed esperienze con quelli degli altri e a rifletterci sopra. In questo modo arriva a maturare conoscenze più complesse degli altri e di se stesso ed una maggior competenza sociale. Secondo quanto emerge dalle ricerche più recenti i bambini con DSL manifestano difficoltà nella regolazione delle proprie emozioni e nel riconoscimento di quelle espresse dagli altri. Ciò potrebbe essere causato dalle difficoltà linguistiche che li portano a rifuggire situazioni di interazione sociale; ma è anche vero che la regolazione delle emozioni e il loro riconoscimento in se stessi e negli altri cominciano il loro sviluppo nelle prime interazioni madre-bambino, quando ancora non si sono manifestate le difficoltà linguistiche. Ciò potrebbe comportare che anche le difficoltà emotive possano avere un ruolo nel disturbo del linguaggio. Sembrerebbe anche che questi bambini manifestino difficoltà di inferenza, processamento delle informazioni auditive ed in particolare fonologiche, difficoltà mnestiche specie per i fonemi, difficoltà nella cognizione sociale e difficoltà concettuali, anche se non è ancora chiaro se siano secondarie rispetto al disturbo linguistico o primarie e con dei ruoli nella sua origine. Si può supporre che difficoltà linguistiche comportino difficoltà di narrazione, e che simili difficoltà influiscano sullo sviluppo cognitivo. Se pensiamo alla capacità di narrare e alla sua importanza per lo sviluppo di abilità di comprensione del punto di vista dell'altro, di astrazione dei concetti, di comprensione degli eventi e ragionamento su di essi anche al fine di una pianificazione di comportamenti per raggiungere uno scopo, di comprensione delle successioni temporali degli eventi e di rappresentazione sia della conoscenza in generale sia della propria storia personale, si possono immaginare dei deficit in questi aspetti nei bambini con DSL. L'osservazione e lo studio di aspetti emotivi e cognitivi presenti nei bambini con DSL può essere molto utile nella pianificazione di programmi di riabilitazione che tengano in considerazione le diverse difficoltà presentate e non solamente quelle linguistiche. I programmi di trattamento, quindi, potrebbero prevedere anche il potenziamento di abilità emotive, sociali e cognitive prendendo in carico il bambino sotto diversi aspetti. In particolare si potrebbero progettare dei trattamenti che si basino proprio sulla narrazione sia degli eventi sperimentati, sia di storie inventate. Grazie all'esperienza delle narrazioni il bambino apprende ad utilizzarle per rappresentarsi gli eventi in forme linguistiche e così poterne discutere e ragionarci sopra, sviluppa la capacità di narrarsi e di narrare la propria storia costruendo così una memoria autobiografica, acquisisce abilità linguistiche e cognitive più complesse, impara le regole sociali trasmesse dai racconti e scopre pensieri e credenze degli altri come differenti dai propri, acquisisce informazioni di categorizzazione concettuale e circa le diverse scienze. Oltretutto le narrazioni stimolano le esperienze sociali in quanto, generalmente, si inseriscono all'interno di un contesto relazionale. Un ulteriore aspetto è che le narrazioni suscitano emozioni positive e i bambini potrebbero essere molto più motivati nello svolgere i compiti previsti dalle terapie. Le emozioni suscitate dalle relazioni e dalle narrazioni all'interno di esse potrebbero essere motivanti al punto da portare i bambini a ripetere nelle situazioni quotidiane l'esperienza,  comportando una maggior possibilità di esperienze sociali e linguistiche oltre che la generalizzazione delle abilità apprese in terapia e la ripetizione degli esercizi. L'utilizzo di narrazioni nelle terapie per bambini con DSL, quindi, potrebbe aiutarli a migliorare le competenze emotive, sociali e cognitive oltre che linguistiche.

 

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