Libertà equivalenti
Paola Locci
Molti anni fa, mi capitò di discutere con un signore il quale sosteneva che la sua libertà di fumare (nell’ambiente in cui ci trovavamo entrambi) fosse “equivalente” alla mia libertà di chiedergli di non fumare. Fermo restando che le due libertà non erano – nella medesima unità spazio-temporale – conciliabili, in quanto l’esercizio dell’una avrebbe limitato l’altra, non potevano tuttavia dirsi equivalenti per il seguente ragionamento. L’apparato respiratorio è costruito per respirare aria pulita. E’ un diritto di tutti respirare aria pulita. La libertà di A di esercitare il diritto di respirare aria pulita non danneggia la salute di B. La libertà di B di fumare danneggia la salute, la sua e quella di A. Ergo, se un giudice avesse dovuto scegliere chi dei due era tenuto a rinunciare alla propria libertà per lasciare spazio a quella dell’altro, avrebbe scelto B e non A. Lo stesso esercizio di logica può essere fatto per molte altre situazioni. E, in moltissime situazioni, se la libertà di uno limita o esclude quella dell’altro, è inevitabile scegliere a quale dare priorità. Viceversa esistono situazioni in cui non è affatto necessario scegliere, perché una libertà individuale non intaccherebbe minimamente la libertà altrui. La querelle sul testamento biologico poggia su talune questioni a mio avviso irrisolvibili.
Ne riassumo alcune:
-se un essere umano ha il diritto di decidere per la propria vita, oppure no
-se la vita sia un bene assoluto, a prescindere dalla qualità, oppure no
-se lo stato vegetativo sia vita, oppure no
-se la nutrizione artificiale sia un atto medico, oppure no
-se in mancanza di volontà scritte siano valide volontà espresse verbalmente, oppure no
-se sono valide volontà scritte quando si sta bene, non potendo prevedere come si starebbe in condizioni diverse, oppure no
Ritenendole, come dicevo, questioni non risolvibili in senso univoco, trovo inutile e pretestuoso discuterne. Quindi mi limiterò a delle riflessioni generiche. Rispetto al primo punto (e in parte al secondo), va da sé che la risposta è strettamente legata al fatto di credere o non credere in un Creatore le cui volontà vanno (o andrebbero) rispettate. Ciò che si fa (o si dovrebbe fare) in nome di una Fede, attiene alla coscienza di ciascun credente. Riguardo all’ultimo punto, invece, vorrei nuovamente fare un piccolo esercizio di logica. Un organismo umano (e non entro nella polemica relativa ai vari stati di coscienza) in teoria potrebbe essere tenuto in funzione artificialmente all'infinito. Se le tecniche si evolvono abbastanza, si potrebbe addirittura “conservare” dei cadaveri, in attesa che possano essere risvegliati. Non è una boutade, ma è cronaca che alcuni signori, dotati evidentemente di grandi mezzi, sembra si siano fatti ibernare post-mortem esattamente con questo obiettivo: essere riportati in vita nel momento in cui la scienza fosse pronta. Uno dei punti più controversi del testamento biologico è appunto l’eventualità di un ripensamento, particolarmente nel caso in cui nuove terapie e/o tecnologie fossero in grado di modificare gli esiti precedentemente ipotizzati di un determinato quadro clinico. Sembrerebbe infatti che nobili paladini più realisti del re, pur non avendo alcun intento di stilare un proprio biotestamento, siano seriamente e altruisticamente preoccupati per gli eventuali ripensamenti di chi, con le idee abbastanza chiare e assumendosene la responsabilità, il testamento vuole farlo. A suo rischio e pericolo. Ma, ironia a parte, se si volesse davvero tener conto delle diverse opinioni, credenze, culture, religioni, se si volesse in altri termini rispettare davvero le Idee e la Libertà di ognuno, come dovrebbe essere un testamento biologico? Necessariamente individuale, articolato e personalizzato, un documento in cui una persona, in grado di intendere e volere, possa esprimere nei particolari e senza vincoli le proprie intenzioni e, volendo, le proprie motivazioni. Potrebbero davvero essere espresse tante libertà equivalenti, tutte legittime, tutte degne di rispetto. Una persona potrebbe chiedere di essere mantenuta in vita in ogni caso, con ogni mezzo disponibile al presente o in futuro, chiedendo magari nel contempo un sostegno per la propria famiglia. Oppure, pur rifiutando l’accanimento, ma temendo di perdere una possibile opportunità di guarigione offerta dalla scienza in tempi successivi alla stesura del testamento, potrebbe indicare entro quali limiti contenere i trattamenti atti a prolungare la sopravvivenza. Oppure, potrebbe accettare terapie anti-dolore e rifiutare altri trattamenti medici e nutrizione artificiale non finalizzati alla guarigione. In questo caso dovrebbe anche essere ritenuta capace di scegliere tra il rischio di cambiare idea senza poterlo comunicare, e il rischio di essere condannata a vivere per forza, in attesa di risvegliarsi (in condizioni intuibili) per ipotetici progressi terapeutici; insomma, tra i due rischi, un individuo dovrebbe avere il diritto – per se stesso - di scegliere consapevolmente il primo. Anche l’eventuale designazione di una persona di fiducia che, in caso di necessità, possa decidere al posto dell’interessato, è un atto che dovrebbe spettare al singolo individuo e a nessun altro. Può essere una scelta sbagliata? Certo: come tutto ciò che è umano. Solo che, nel dubbio, si dovrebbe esser liberi, anche in questo caso, di correre il rischio di sbagliare una propria scelta, piuttosto che il rischio di cadere in mani (e teste) sbagliate, non in linea cioè con la propria personale visione della vita. O a qualcuno è dato di dirci in chi riporre la nostra fiducia? Con un pizzico di onestà, non è difficile rendersi conto che nessuna delle scelte personali esposte (ma ne sono possibili molte altre) potrebbe, in alcun modo, neppure scalfire la libertà altrui. Allora mi chiedo, e ho paura a rispondermi: per quale motivo non si riesce a stabilire regole condivise che consentano o persino aumentino la libertà individuale, pur non venendo intaccata quella altrui? Per quale motivo si punta invece a soluzioni uguali per tutti, che, accreditando legittime scelte di alcuni penalizzano inevitabilmente altrettanto legittime scelte di altri, su temi che dovrebbero essere privati e su diritti che dovrebbero essere inviolabili? Parafrasando il motto orwelliano, che ci siano libertà più equivalenti di altre.
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