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Lippi ha ragione…

Paola Locci

Non mi interessa il calcio. Ebbene sì, esiste anche qualcuno che riesce a sopravvivere facendo a meno di questo invadente circo in boxer e calzettoni, non per snobismo, per carità; solo che se guardo una partita, non riesco a non distrarmi nei primi 3 minuti. E’ certamente un mio limite. Però una notizia sentita casualmente alla vigilia di una partitissima dei mondiali, mi dà lo spunto per parlare di un fenomeno che non appartiene certo solo al pianeta calcio. No, no, non ho alcuna intenzione di impantanarmi nella palude delle grandi truffe, dei mega-intrallazzi, delle pasticciopoli nazionali. Lippi ha ragione. Lippi – confesso che non so esattamente chi sia salvo il fatto che prepara la nazionale – ha puntato il dito, forse senza saperlo, su un malcostume tipicamente e trasversalmente diffuso. Un vizietto che va ben oltre il mondo del calcio e ben oltre il mondo giornalistico. Con il suo morbido accento (credo) toscano, ai giornalisti che insistevano per conoscere in anticipo la formazione della squadra, ha risposto approssimativamente: se io non rivelo la formazione “è per non dare vantaggi all’avversario”, l’ho detto tante volte ma voi non volete cambiare opinione, e continuate a telefonarmi la sera in albergo. Ora, immagino che si possa discutere su questo come su altri punti di vista, ma non ho sentito, in varie edizioni successive di GR e TG, alcuna discussione su questa strategia. Mentre, chiarissimo, il titolo di un giornale radio sentenziava: Lippi “nasconde” la formazione e apre una dura polemica con i giornalisti. E nel servizio: le premesse non sono buone, Lippi “è nervoso”, sentite come risponde a una semplice domanda… [GR1 26 giugno 06 ore 8] Nessun commento sulle ragioni di tale risposta, pepata sì, ma quanto mai giusta. Singolare comportamento da parte di chi dovrebbe informare. Mi è tornato in mente quanto lamentato da un mio paziente circa i suoi difficili rapporti con un familiare: quello che più mi irrita è la sua pretesa di dirmi come io “sono”. Questi sono solo due esempi, ma se cominciate a farci caso, vi accorgerete quanto spesso, in tutte le più svariate circostanze, pubbliche o private, ciò accade. Quanto spesso i giornalisti come i politici, gli amici come gli ospiti TV, i condòmini come i colleghi di lavoro, affibbiano etichette e giudizi su quello che una persona è, è stata, o dovrebbe essere, tanto più quanto più la connotazione è negativa. Lippi è nervoso, tu sei aggressivo, l’insegnante è troppo duro, il collega è un lavativo. Saltando sorprendentemente la fase del “perché”. Naturalmente gli insulti fanno eccezione, essendo per definizione giudizi negativi diretti e finalizzati a colpire, ma almeno, per certi versi, leali. Infinite discussioni nascono e si esauriscono, ahimè senza vantaggio per alcuno, nel definirsi reciprocamente, in modo più o meno intelligente e sottile, o viceversa in modo becero e pesante, senza mai neppure sfiorare il contenuto della discussione stessa. In altri termini, non si discute se rivelare la formazione di una squadra prima di una partita può davvero favorire l’avversario. Non si discutono le motivazioni di chi ad un referendum vota sì oppure no. Non si discute quasi mai perché una determinata scelta – o valutazione, o convinzione, o condotta - può essere più o meno conveniente di un’altra in campo economico, lavorativo, sociale, relazionale. No, si discute, spesso si litiga, su CHI dice, pensa, sceglie o decide una cosa piuttosto che un’altra. CHI è, in quale categoria, o ceto, o provenienza geografica, o colore politico, eccetera eccetera, va inquadrato. E si reagisce a seconda della categoria alla quale si pensa di appartenere e che si pensa di dover difendere, a tutti i costi. I giornalisti che si sentono offesi se non vengono informati; i familiari che pretendono di imporre la propria visione della vita; i politici, professionisti o simpatizzanti, che reclamano il potere come dovuto presumendo di conoscere l’unica vera Soluzione Globale alle difficoltà del mondo; gli sportivi che, non dovendo assumersi responsabilità in prima persona, sanno sempre puntualmente cosa bisogna (o bisognava) fare per vincere. L’elenco potrebbe essere lunghissimo, ma il meccanismo è sempre lo stesso, nei grandi sistemi come in quelli piccoli piccoli: l’incapacità, o meglio l’indisponibilità, sempre più opprimente e pericolosa, ad ascoltare le ragioni degli altri.

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