Libertà obbligatoria, opinioni e civiltà Paola Locci In una trasmissione televisiva di successo in cui si insegna a diventare famosi, ho assistito ad un incredibile dialogo: ad Aldo Busi che, a proposito di un tema assegnato ai ragazzi, diceva ad uno di essi “Tu sei andato fuori traccia”, uno sbarbatello ventenne teneramente ignorante rispondeva “Io non le permetto...”. Aldo Busi, che può piacere o non piacere, ma è indubbio che sia un grande scrittore, replicava esterrefatto “Sono io che non ti permetto; qui sono io il maestro e tu sei l’allievo. Potremmo discuterne, ma alla fine io decido, non tu, se sei fuori traccia”. In un’altra trasmissione, dove un vero giudice emette sentenze in un finto tribunale, il pubblico manifesta la propria “opinione” su chi ha torto e chi ha ragione dei contendenti, spesso criticando le decisioni del giudice, senza mai minimamente preoccuparsi di ciò che dice la legge in proposito. Nella bizzarra ma diffusa convinzione che un giudice emetta un verdetto non applicando la legge e utilizzando la giurisprudenza, ma decidendo autonomamente ciò che per lui è “giusto”, esprimendo cioè nulla di più che un’opinione. Frequentemente capita di sentire subrettine, grandi fratelli, figuranti di finto pubblico, il cui unico mestiere nella vita consiste nel mettere insieme gettoni di presenza come comparse, tacitare con arrogante determinazione esperti di ogni genere - gente che ha dedicato la vita a studiare faticosamente la propria materia - usando come passe-partout frasi come: questo è un paese libero, c’è la democrazia, se non sono d’accordo ho il diritto di dirlo... Ma la più raccapricciante di queste frasi è: è una mia opinione! Mi sono riferita a trasmissioni televisive perché la TV, oltre che essere una rappresentazione della realtà, è una realtà che tutti conosciamo. Ma lo stesso meccanismo può riprodursi con le stesse modalità in ogni altra situazione. Una volta ho raccolto lo sfogo di una signora: era molto arrabbiata con i chirurghi che avevano avuto l’ardire di intubarla durante un intervento, avendole anche fatto un’anestesia endovena. E’ stato inutile spiegarle - da medico - che le due tecniche avevano finalità diverse: Io resto della mia opinione. Come è stato inutile spiegare ad un altro signore che la sua cardiopatia, pur contenendo nel nome la radice “reuma”, non era stata causata dall’umidità presa al mare. Cos’hanno in comune questi episodi, a cui se ne potrebbero aggiungere quotidianamente decine e decine? Riassumerei il fenomeno in tre convinzioni: 1)che tutto sia “opinione” e che tutte le opinioni si equivalgano. 2)che c’è la “libertà” 3)che siamo tutti “uguali” Punto primo. L’opinione, ovvero “idea, giudizio, o convincimento soggettivo” (Zingarelli 2002), è un’opinione in quanto è appunto soggettiva. Riguarda cioè un argomento che non è oggetto di studi e ricerche i cui risultati sono tanto meno soggettivi, quanto più, in modo indirettamente proporzionale, sono da ritenersi oggettivi. Faccio un esempio: ognuno di noi può avere un’opinione sul fatto che in un qualunque altro pianeta del sistema solare esistano esseri viventi simili a noi. Al momento attuale, nessuno, neppure gli astronomi, possono dire una parola risolutiva su questo tema. Viceversa, se io immagino che la distanza dalla terra alla luna possa essere di 300 km, ed un astronomo asserisce che essa oscilla tra 363.296 e 405.503 Km, io sto esprimendo un’opinione, lui no. In realtà, su alcuni argomenti, laddove la soggettività non ha motivo di essere considerata, le opinioni non dovrebbero neppure esistere. Punto secondo. La libertà: splendida parola carica di nobili significati, ma anche di curiosi equivoci. Ad esempio: se è vero che ho la libertà di pensare ciò che voglio, e che avrei anche il diritto di esprimerlo, non è scritto da nessuna parte che io abbia l’obbligo di farlo! Forse dovrei di volta in volta considerarne l’opportunità valutando la circostanza, l’ambiente, il momento. Quand’ero piccola, mi dicevano: se pure pensi che una persona è brutta o antipatica, non è necessario dirglielo. Oggi si crede che non dire sempre, a tutti i costi, in tutte le occasioni, ciò che si pensa, sia una mancanza di spontaneità (!), o addirittura un’ipocrisia. Ma siamo sicuri che sia veramente così? Eppure questa è la stessa epoca in cui si sono introdotti termini come nonvedente, nonudente, diversamente abile, per evitare di essere troppo espliciti. Questo cosa significa? Che si sta attuando un nuovo genere di discriminazione ritenendo lecito scaricare tutta la propria frustrazione e aggressività purché la vittima sia vedente, udente, e normalmente abile? Terzo punto. Siamo tutti uguali. Mi chiedo: la gazzella è uguale al leone? Un bambino di un villaggio ruandese è uguale ad un bambino di Helsinki? Er Piotta è uguale a Beethoven? Certo, sono rispettivamente animali, bambini, uomini... Che vuol dire essere uguali? Ogni essere vivente, animale o vegetale, ogni pietra e ogni goccia d’acqua, ogni attimo del tempo e ogni millimetro dello spazio, tutto ciò che è conosciuto e conoscibile è unico, e quindi diverso. Come dice Michel de Montaigne “la qualità più universale è la diversità”. In altri termini, non c’è nulla di più artificiale dell’uguaglianza. Eppure l’uguaglianza è un Valore: lo sappiamo tutti. Egalité! proclamava la rivoluzione francese. Ma anche su questo concetto, come su quello di Libertà, si è instaurato un colossale equivoco. L’Uguaglianza è un valore quando esprime un principio, sociale, politico, morale. Principio e aspirazione ideale che si riferisce all’uguaglianza dei diritti, all’uguaglianza davanti alla legge, all’uguaglianza rispetto alle opportunità di sopravvivenza e di qualità della vita. Ma a parte ciò, l’uguaglianza, come dato di realtà, semplicemente non esiste. Allo stesso modo non esiste, in nessuna società, l’uguaglianza dei ruoli: un docente non è uguale ad uno studente, uno scienziato non è uguale ad un artigiano, un genitore non è uguale al figlio, un artista non è uguale ad un informatico. Alcuni ruoli poi implicano necessariamente una gerarchia, anche se talvolta relativa e limitata ad un determinato contesto. Tornando alla trasmissione di cui parlavo all’inizio, il pubblico è autorizzato (anzi direi che viene istigato) ad esprimere liberamente il proprio pensiero. Non sono così ingenua da non pensare che certi personaggi siano selezionati e incaricati dagli autori per solleticare quello che io chiamo l’istinto del colosseo, ma è palese che in ogni personaggio c’è un ampio margine di contributo personale. Ad esempio una signora, insegnante o ex insegnante, è autenticamente severa e bacchetta a destra e a manca, intervenendo con pesanti critiche e perentori commenti sulla personalità dei ragazzi, con un intento “pedagogico-formativo” da evidente deformazione professionale. Atteggiamento che, se è logico e naturale (senza entrare nel merito dei contenuti) all’interno di una scuola, in quella sede appare decisamente moralistico, invadente, fuori luogo. Per non parlare delle esternazioni di certi petulanti paladini della libertà d’espressione, in nome della quale attuano un patetico tiro a segno, usando come bersagli gli indisciplinati ragazzi, a loro volta “liberi pensatori”, ma ricchi almeno del loro talento. Sorprendentemente - ma in fondo quanti si sorprendono? - alcuni di questi allievi da un lato non si privano del piacere di contestare apertamente gli insegnanti, dimenticando con tignosa incoscienza il proprio ruolo di studenti, cioè il motivo stesso della loro presenza in quel luogo, e dall’altro accettano critiche feroci e giudizi senza appello da parte di spettatori incompetenti e biliosi, sia sulle loro capacità artistiche sia sulle caratteristiche della loro personalità. Come se fosse la cosa più naturale del mondo! In ottemperanza appunto alle tre regolette di cui sopra: tutto è “opinione”, c’è la “libertà”, siamo tutti “uguali”. La civiltà di un paese innegabilmente si misura, tra l’altro, dal grado di libertà di espressione della sua popolazione. Forse ci si dovrebbe ricordare che si misura anche dalla capacità di non abusarne.
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