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"Non giudicar la nave stando in terra (Proverbio)"

 Paola Locci

Durante i giorni tristi dello tsunami nel sud-est asiatico, molti furono gli episodi portati alla ribalta dai mass media. Alcuni passarono quasi inosservati, compresi piccoli e grandi atti di eroismo, altri furono più seguiti, più commentati. In genere gli avvenimenti più sfruttati in interviste e sondaggi sono quelli in cui è più facile immedesimarsi e, come è logico, le influenze culturali non sono marginali. E cosa fa più impressione da noi di qualcosa che investa il debordante istinto materno delle mamme italiane? Mi riferisco all’episodio in cui una giovane donna, travolta dall’onda anomala, fu costretta a scegliere quale dei suoi due bambini tenere stretto a sé, e quale lasciare andare al proprio destino. Con grandissima lucidità, con quella sovrumana forza della mente e del cuore che si manifesta solo in circostanze drammatiche, la madre scelse di tenere il più piccolo, quello che certamente non avrebbe potuto farcela da solo. Lasciò andare il più grande, nella speranza che riuscisse a cavarsela con le sue forze. I fatti le diedero ragione, perché il bambino più grande riuscì a resistere finché qualcuno lo aiutò a mettersi in salvo. Ebbene, in quei giorni ho sentito una valanga di critiche rivolte a questa madre: ma come aveva potuto scegliere tra i due? come aveva potuto lasciare andare un figlio verso una morte quasi certa? doveva tenerli tutti e due! E’ stato inutile cercare di far capire ad alcune di queste persone che se una mano serve ad aggrapparsi, ne resta solo una per trattenere un solo bambino. E che salvarne uno era meglio che perderne due... E che, dei due, solo il più grande aveva qualche possibilità di farcela... E che naturalmente se quella donna avesse potuto fare diversamente, l’avrebbe fatto... Alla mia domanda: tu che avresti fatto? la risposta continuava ad essere: li avrei tenuti tutti e due. Lasciando quasi intendere che era meglio che morissero tutti e tre. L’ostinata irragionevolezza di queste reazioni mi ha fatto ripensare ad altre situazioni in cui scelte difficili e dolorose si impongono, a volte a chi è preparato e in qualche misura addestrato ad affrontarle, a volte a chi, casualmente e improvvisamente, viene messo di fronte a decisioni che mai avrebbe pensato di dover prendere. Inevitabilmente, quasi che il riuscire a ragionare in certe circostanze sia segno di colpevole insensibilità, scattano da parte degli spettatori critiche irrazionali e giudizi sommari. E la domanda: tu che faresti? resta senza risposta. Molti anni fa lavoravo da poco in ospedale e, in un reparto di medicina, ho visto un paziente i cui polsi erano assicurati alle sponde del letto con delle garze. Ho subito immaginato un titolo in prima pagina: Ospedale lager! Malato legato al letto! Si trattava di un signore molto molto anziano, con flebo, ossigeno e vari altri tubicini che sparivano sotto le lenzuola. Alla caposala che si era avvicinata, una suora energica e gentile, ho chiesto perché era legato e lei mi ha risposto che il paziente, affetto da demenza avanzata, appena libero si strappava tutti i tubicini e si buttava giù dal letto. E, anticipando la mia successiva domanda, mi disse: lo so, è triste, ma non possiamo fare altro, ci vorrebbe una persona accanto a lui, per ventiquattro ore al giorno. E qui abbiamo 40 ricoverati. Lei che farebbe? Immagino che anche ora, leggendo, qualcuno si stia sconvolgendo-indignando-scandalizzando. A questo qualcuno chiedo: lei che farebbe? di concretamente fattibile? Ricordo uno sceneggiato televisivo che raccontava un episodio vero, immagino uno dei tanti: un gruppo di persone in fuga, una madre con il proprio piccolo che piange tra le braccia, il pericolo di essere scoperti e uccisi tutti. Il pianto del bambino soffocato, per sempre. Quante volte è stato scelto il sacrificio di uno o di pochi per la salvezza di molti? E in quanti abbiamo provato a metterci nei panni e nella testa di chi certe decisioni ha dovuto prenderle e metterle in atto? Un ultimo esempio, che vuole essere anche un omaggio, da collega, al coraggio di quei medici sconosciuti, di guerra o di pace, di prima linea o di medicina delle catastrofi, che si trovano a dover decidere in pochi secondi chi aiutare e chi lasciar morire. Che, inghiottendo come un veleno i propri sentimenti di pietà, sono costretti a scegliere secondo una fredda razionale terribile ma utile logica, quelli che hanno più probabilità di sopravvivere. Portandosi dentro per sempre certi sguardi, in assoluta solitudine. Com' è semplice giudicare, quando non tocca a noi! Com' è facile moraleggiare sulle scelte di chi è chiamato a scegliere senza alcuna possibilità di delegare ad altri le proprie responsabilità. Com' è comodo far finta che certe decisioni non siano mai necessarie. Com' è rassicurante guardare le navi andar per mare, stando in terra... La verità è che non si vuole sentir parlare di queste realtà. Ci mettono di fronte all’imbarazzante evidenza dei nostri limiti, della nostra solitudine nelle scelte davvero difficili, della nostra infinita imperfezione. 

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