La
sindrome del sanbernardo
Paola
Locci
Sull’altruismo
(e sul suo contrario l’egoismo) sono stati scritti miliardi di parole.
Sugli aspetti sociologici, filosofici, psicologici, religiosi,
antropologici.
Cosa potrei aggiungere
di nuovo?
Nulla. Il mio è solo
un invito a domandarsi cosa è - per noi - l’altruismo.
Perché noi siamo –
quando lo siamo - altruisti, generosi, disponibili? Qual è il nostro
limite alle richieste d’aiuto, qual è la nostra soglia di tolleranza
alle sofferenze di altre persone, qual è il grado di capacità di negarsi
rispetto alle altrui pretese?
La risposta più ovvia di una persona generosa sul perché sia generosa è:
perché mi fa piacere fare del bene a qualcuno, come dire: lo faccio per
il mio bene. Però questa frase ne ricorda molto da vicino una simile e
contraria, non sempre gradita, che quasi tutti abbiamo sentito
pronunciare: lo faccio per il tuo bene.
La prima è legata ad
un sentimento di gratificazione che deriva dal sentirsi nobili e buoni,
dal sorriso riconoscente della persona aiutata, dall’assoluta assenza di
sensi di colpa che sarebbero invece insorti con prepotenza se ci si fosse
rifiutati di prestare aiuto.
La seconda è legata
per lo più al senso del dovere: faccio una cosa che non ti piacerà, ma
la faccio lo stesso per il tuo bene. Perché naturalmente io so qual è il
tuo bene, ed è mio dovere aiutarti.
Il punto è: qual è il tuo bene? Stabilire qual è la cosa migliore da
fare per un’altra persona non è così semplice come appare.
Ci sono situazioni
banali e generalmente episodiche che non dovrebbero creare dubbi: ad
esempio se una persona cade malamente per strada sotto ai nostri occhi, è
“cosa buona e giusta” aiutarla a rimettersi in piedi ed assicurarsi
che stia bene. Ma se a cadere ripetutamente è un atleta che si sta
allenando, probabilmente aiutarlo a rialzarsi non è la cosa migliore che
il suo coach possa fare. Come dice anche un vecchio proverbio,
“sbagliando s’impara”.
Un altro esempio è
quello dell’amico che ha bisogno di una mano in un particolare momento
di difficoltà. E’ giusto e naturale aiutarlo. Ma se l’amico si
lamenta da una vita sempre degli stessi problemi, senza mai decidersi ad
affrontarne le cause, che succede? Se ha vicino una o più persone
disponibili a ricevere i suoi sfoghi, a dispensargli conforto e complicità,
immancabilmente, dopo ogni sfogo, si sentirà così sollevato da rimandare
ad libitum un serio autoesame sui veri motivi del suo malessere.
Purtroppo quella che io chiamo la sindrome del sanbernardo, e altri
chiamano la sindrome della crocerossina con la variante della sindrome di
wonderwoman, è molto diffusa. E non potrebbe essere altrimenti in un
paese di cultura cattolica in cui la pietà, la carità, la solidarietà
sono valori imperativi. Non è neppure casuale che alcune denominazioni
italiane siano al femminile, visto il diffusissimo mammismo
protezionista-ad-oltranza, nel senso che va ben oltre la giusta protezione
che si deve ai piccoli.
Non che la solidarietà non sia di per sé un valore, ma quasi mai ci si
chiede se è veramente utile alla persona che ne beneficia. O piuttosto è
più utile a chi la pratica per sentirsi più forte, più bravo, più
buono; in altri termini superiore.
Se poi una persona che
fa del lamento quasi una professione si incontra con una persona con la
sindrome del sanbernardo, il binomio è lungamente indissolubile perché i
vantaggi sono reciproci. Ma, come spesso accade di scoprire in psicologia,
il vantaggio è solo apparente e temporaneo e, presto o tardi, i nodi
vengono al pettine. Il nodo del rifiuto all’autocritica e quello
dell’esigenza di sentirsi indispensabile.
Gira molto nel web una
storiella edificante su una farfalla che viene aiutata ad uscire dal
bozzolo da un uomo impietosito dai suoi sforzi. Questa farfalla, narra
l’autore del racconto Eric de la Parra Paz, non poté mai volare perché
lo sforzo che le era stato risparmiato sarebbe stato necessario ad
irrobustirla tanto da consentirle di dispiegare le ali accartocciate.
Parallelamente, è altrettanto diffusa
la propensione a tirarsi fuori da situazioni in cui si ha, o si è avuta
in precedenza, una parte importante. Senza averne consapevolezza.
Tempo fa, un amico
osservava come, nel suo acquario casalingo, un gruppo di pesci decidesse
di isolare un individuo sgradito confinandolo in un angoletto della vasca
e, impedendogli di nutrirsi, lo condannasse di fatto a morire.
Certo, in natura la legge del più forte è evidente in mille
manifestazioni, e l’essere umano - che pure ne è artefice o vittima –
non può che arrendersi impotente ad una realtà che sembra ineluttabile.
Ma è sempre così?
Ciò che è sfuggito al mio amico è
che l’emarginazione di un pesce da parte del gruppo avviene solo quando
l’ambiente è troppo ristretto; in mare aperto non succederebbe perché
il pesce scacciato andrebbe a cercarsi un altro territorio. In effetti
l'amico ha parlato di un fenomeno credendosi un osservatore neutrale, come
se un osservatore non facesse parte anch'egli del quadro osservato; cioè
non si è accorto che lui ha contribuito a determinare quella situazione
appunto mettendo i pesci in un ambiente artificiale e ristretto.
Forse varrebbe la pena di chiederci più spesso, senza fermarsi alla
superficie, perché preferiamo precipitarci al soccorso con la nostra
botticella di grappa, piuttosto che domandarci fino a che punto noi
personalmente abbiamo influito sulla realtà che ci circonda, e come
potremmo cambiare le cose, cambiando noi stessi.
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