Psicoterapia e cambiamento Paola
Locci Il
“cambiamento” è l’obiettivo di qualsiasi psicoterapia. Cambiamento
nella direzione di un maggiore benessere, di una migliore capacità di
trovare in se stessi nuove modalità e risorse nell’affrontare la
propria vita. Un momento fondamentale nel cambiamento è quello che sto
per descrivere. Una giovane signora, chiamiamola Armida,
in terapia da circa due anni per una forma depressiva piuttosto
seria, mi ha manifestato recentemente, non senza sorpresa, un improvviso
netto miglioramento del suo umore e dello stato di salute complessivo. Le
psicoterapie sono strani oggetti, come i computer: talvolta sembra che
abbiano una volontà propria. A volte sembra che tutto si sia bloccato,
come una specie di lunga sosta in un percorso al buio faticoso e
accidentato, e a volte c’è un balzo in avanti e il percorso sembra,
improvvisamente, più agevole e meno buio. Se fosse un processo graduale
non stupirebbe, dopo tanti mesi o anni di lavoro, ma quello che stupisce
è proprio la subitaneità, come quando, solo con gli ultimi pezzi di un
puzzle complicato, si riesce finalmente a riconoscere il soggetto
raffigurato. Esiste un termine in psicologia per descrivere questo
fenomeno, che è insight, e che infatti ha a che fare anche con la
visione. Spesso le persone mi dicono: io so da sempre certe cose, me le
sono ripetute mille volte, ma questo non mi fa stare meglio. Come dice
Woody Allen: ho dato migliaia di dollari al mio analista per sapere che
odio mia madre, e adesso? Ma,
battute a parte, sapere è una cosa, prendere atto nel profondo è
un’altra. La prima attiene al ragionamento, la seconda al piano
emozionale, interiore, per dirla con Freud: inconscio. E’ un sapere
diverso. Se vogliamo usare un’altra metafora, è come se dopo essere
stati al buio in una stanza di cui si pensa di conoscere ogni particolare,
all’improvviso si accendesse una luce che ci consente di vedere
veramente, per la prima volta, dove siamo, e ci accorgiamo di quante cose
ci fossero sfuggite. Ho assistito a questo fenomeno numerose volte, e
l’ho vissuto io stessa tanto tempo fa, ma ogni volta mi meraviglia, come
molti altri aspetti di quell’entità misteriosa che è la nostra psiche.
Non voglio dire che il verificarsi di un insight durante una terapia
equivalga alla soluzione di ogni problema. Non dico che da quel momento è
tutto risolto, tutto andrà bene, però, anche se non risolutivo, è
certamente un evento molto positivo, perché chi ne fa l’esperienza ora
sa che tale evento è possibile e che può ripetersi, più e più volte. Sì,
ma a che serve? Giustamente qualcuno potrebbe farmi questa domanda. A
questo qualcuno io rispondo proseguendo con la metafora: si sentirebbe più
tranquillo in una stanza che conosce bene ma al buio, o nella stessa
stanza con la luce accesa? Il buio spaventa da sempre gli esseri umani, è
un fatto atavico, ma non meno spaventa il buio nella mente. E per quanto
ci faccia paura vedere davvero certe realtà, vederle è comunque meglio
del buio. La prova, nel caso
di Armida, sta nel fatto che,
pur non essendo cambiato nulla nella sua difficile quotidianità, ella ha
avuto, dopo tanto tempo, una settimana in cui si è sentita decisamente
meglio, ha dormito di più dopo anni di insonnia, era meno arrabbiata,
meno sofferente. Mi auguro che con il passare dei giorni sia ancora così.
Ma se non fosse così, sono quasi certa che Armida non ricadrà nella
disperazione: ora sa che è possibile. E’ possibile stare meglio senza
che accada nulla di eccezionale, solo perché la mente riesce, per motivi
in parte noti e in parte a noi sconosciuti, ad acquietarsi e a farsi una
ragione di quanto accade o è accaduto… al suo proprietario. Arriverei a
dire che proprio perché in apparenza non è successo nulla di nuovo, un
diverso migliore stato d’animo può essere solo il risultato di qualcosa
che è accaduto dentro, non legato cioè ad avvenimenti esterni. Questo è
importante. Rendersi conto che la nostra serenità non deve
necessariamente dipendere dagli avvenimenti esterni è un forte elemento
di rassicurazione. Quando Armida mi ha detto che sono crollate tutte le
sue certezze, forse ancora non si rendeva conto di quanto questo sia
positivo: è un’altra
dipendenza – forse la più difficile da cui uscire – di cui si sta
liberando. La consapevolezza dell’assoluta precarietà e limitatezza
della condizione umana può diventare paradossalmente un fattore di
serenità. Pensiamoci: se non ci fa più tanta paura l’ignoto e
l’imprevedibile della nostra esistenza, cos’altro può farci paura? Se
poi a questa consapevolezza uniamo la coscienza dei nostri (e altrui)
limiti, se cerchiamo di fare del nostro meglio e riusciamo ad accettare i
nostri (e altrui) errori e manchevolezze,
ecco che la serenità non appare più come qualcosa di impossibile.
Non voglio essere fraintesa, non sto parlando di un improbabile nirvana;
non auspicherei per nessuno uno stato di totale imperturbabilità! Però
auspicherei senz’altro un lieve fluttuare tra una ragionevole volontà
di combattere ragionevoli battaglie, e una saggia capacità di ritrarsi da
cose più grandi di noi, senza vivere tale ripiegamento come una
sconfitta. Le certezze non servono. I punti di riferimento non sono
assoluti: il nostro nord è dentro di noi, bisogna solo scoprirlo. Il
cambiamento comincia da qui.
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