L’involuzione della specie Paola
Locci Stamattina
ho ricevuto un invito ad un corso di “Formazione
alla nonviolenza”. Ammetto che sono rimasta alquanto perplessa; sarebbe
come dire formazione alla nonaggressione, al nonomicidio, alla nonrapina,
al nonstupro...? Tanto più assurda mi appare la necessità di una
formazione apposita al non-uso della violenza, fisica o verbale, in una
società - come la nostra - in cui parallelamente ad un martellante
predicare su pace, tolleranza, comprensione e solidarietà, vengono messe
in atto continue e altrettanto martellanti manifestazioni di pura
aggressività fine a se stessa, leggi violenza.*
Tralasciando l’aggressività “a mano armata” che spero sia
ancora un reato, e come tale non debba essere oggetto di formazione al
non-uso, limiterei le mie riflessioni alla violenza verbale. Ieri, appena
uscita di casa, mi sono trovata la strada bloccata da due auto ferme in
direzioni di marcia opposte, i cui conducenti, novelli Mercuzio e Tebaldo,
si fissavano con occhi di brace attraverso i vetri fumé dei finestrini
dicendo ognuno all’altro: “da qui io non mi muovo”. Tutti sappiamo
com’è finita in quel di Verona. Vista l’impossibilità di far
ragionare almeno quello dei due che aveva lo spazio sufficiente per
procedere senza perdere la faccia, brandendo il mio cellulare ho
annunciato serafica che stavo chiamando la polizia. Quattro occhi
fiammeggianti di collera si sono appuntati su di me, ma il numero magico
113 ha magicamente sbloccato la situazione e con uno stridore di gomme i
due contendenti si sono allontanati. Sono certa che a molti sarà
capitato di assistere a scene simili. Sempre che non l’abbiano
interpretate... Purtroppo non è solo la strada teatro di furibonde
contese sul... nulla. Capita negli uffici, nei negozi, a scuola, per non
parlare dei condomìni, del vicinato, e dei nostri tranquilli gruppi di
famiglia-in-un-interno. Ma il teatro dei teatri è la televisione. Grande
immensa sorella con l’occhio instancabilmente puntato sul mondo. E,
insieme a tutta la Grande Violenza che si abbatte sulla nostra coscienza
(per chi ce l’ha), si creano ad arte mille altre occasioni di piccola
violenza, meschina, stupida, gratuita. Così si assiste incessantemente
all’attacco feroce di gente nota per essere nota ad un presentatore (per
la serie “facce ride”), ad una canzonetta, ad un cantante o persino ad
un abito o una pettinatura (ogni riferimento al festival di Sanremo non è
affatto casuale); alle zuffe ininterrotte dei cosiddetti reality; agli
indecorosi battibecchi dei vari contenitori in cui gli ospiti non si
distinguono dagli habitué del pubblico s-parlante; al linciaggio in
diretta di ragazzini apparentemente arroganti e coriacei, ma in definitiva
sempre ragazzini, da parte di “adulti” irresponsabili e villani che,
in nome della libertà d’opinione, ci gratificano della loro profonda
incompetenza. Mi sto riferendo con quest’ultimo esempio alla
trasmissione Amici (nome decisamente da cambiare), osservatorio
preziosissimo per chi, come me, si diletta, per mestiere e per passione,
di comunicazione e dinamiche di gruppo. Do atto alla De Filippi che per
suo merito è tornata la danza in tv, ma non è più sopportabile che ogni
trasmissione – pur essendo partita in tutt’altro modo – si trasformi
in un colosseo di tutti contro tutti, in cui l’istigazione alla violenza
viene fatta passare come normale. Ma la cosa più inquietante l’ha detta
proprio la De Filippi, quando le è scappato di affermare che se la
trasmissione esiste e resiste è perché ha un’alta audience e –
indovinate un po’ – come si alza l’audience? Con le risse, con i
figuranti a gettone che seminano maldicenza e ostilità, con le lacrime di
umiliazione e di rabbia di tanti ragazzini allevati nella convinzione che
questo sia il prezzo da pagare al talento e al successo. Si straparla di
solidarietà in un’orgia di io-sono–come-te-tu-sei-come-me, mentre
ovunque, con un perverso processo imitativo, dentro e fuori la tv,
proliferano giudizi affilati come lame in un duello, opinioni irose
scagliate come rivalse, piccole misere vendette lanciate, in realtà,
contro una vita – la propria - sentita come anonima e insulsa. Che
spreco di energie! Ma come è possibile che una società “sana”
accetti tutto questo, anzi no, ne sia l’artefice?! Se il meccanismo che
premia o boccia una trasmissione è l’audience, allora è il gradimento
del pubblico che stabilisce i programmi, o no? Quindi, o si decide di
modificare il meccanismo e si torna all’idea che, se la televisione non
deve necessariamente educare, almeno non deve diseducare. Oppure dobbiamo
accettare la terrificante idea che viviamo in una società che si nutre, e
nutre i suoi figli, di un’aggressività sguaiata e crudele che ha
l’unico scopo di sfogare frustrazioni e invidie; una società che sta
tirando su dei galletti da combattimento, povere creature destinate ad
uccidere per non essere uccise. Ma io davvero non ci riesco. Chi mi
conosce sa che non sono per l’iperprotezione dei ragazzi, anzi. Genitori
e insegnanti dovrebbero riprendersi con fermezza il loro ruolo educativo,
intervenendo energicamente ogni qualvolta sia necessario. E neppure mi
piace l’ipocrisia, quella di una volta tutta moine e falsità, tanto
meno quella di oggi tutta buonismo e volemosebene. Tuttavia, senza un
controllo razionale dell’attuale incontinenza verbale, per alcuni – più
giovani e sprovveduti - il passaggio dalla violenza pensata e parlata a
quella agita può essere breve (non a caso il bullismo è un fenomeno in
preoccupante crescita). E veniamo alle ipotetiche cause. Mi perdonino i
sociologi se invado il loro campo, ma ho l’impressione che la nostra
quotidiana violenza spicciola, fruita con pari ingordigia da attori e
spettatori, sia il frutto di una cultura schizofrenica che, mentre propone
il valore della diversità, impone un generale appiattimento (in basso)
nel tentativo di raggiungere un’uguaglianza fittizia e l’abolizione
della competitività come cose buone e giuste. Se è giusto che
uguaglianza deve esserci su diritti e doveri, opportunità e strumenti,
pensare che davvero siamo tutti uguali è semplicemente innaturale, e
anche ingiusto. Voler migliorare la propria condizione materiale, e voler
altrettanto aspirare ad una evoluzione esistenziale, facendo emergere le
proprie potenzialità, in una ricerca del proprio primato, in competizione
con se stessi ma anche con gli altri, è una delle caratteristiche più
belle, affascinanti (e misteriose) degli esseri viventi. Se non fosse così,
saremmo ancora tutti nelle caverne a mangiare carne cruda. Una giusta e
misurata aggressività e una corretta competizione sono quelle che
coincidono con l’istinto di sopravvivenza, ci permettono di affrontare
le avversità, di non soccombere alle prevaricazioni, di migliorare la
nostra e l’altrui esistenza. E, a mio parere, aiutano, paradossalmente,
a combattere la violenza. Queste componenti dell’animo umano possono
essere estremamente positive se educate e indirizzate, mentre possono
essere molto pericolose se vengono ignorate o represse. Insomma, penso che
cancellare forzatamente qualcosa di innato è utopico quanto
controproducente: chi non conosce quell’irrefrenabile voglia di
cioccolata che scatta non appena questa viene esclusa da una dieta? Mi
scuso per la metafora azzardata e un po’... golosa, ma davvero non credo
si possa insegnare la non-violenza, così come mi sembra bizzarro
insegnare una qualsiasi non-qualcosa. Si può invece insegnare, e
imparare, a gestire bene la nostra naturale aggressività, a farne uno
strumento utile. E perché non usare un po’ di sana aggressività per
combattere il degrado e l’imbarbarimento della nostra società? Proviamo
a far tornare di moda, pur nella competizione, rispetto ed eleganza. Se
questo vi sembra un accorato appello, beh, lo è.
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