Fidarsi è bene, non fidarsi... Paola
Locci Quando
incontro per la prima volta una persona che vorrebbe iniziare una
psicoterapia o che desidera semplicemente saperne qualcosa di più, cerco
di essere sempre molto chiara sul tipo di lavoro che possiamo fare insieme
e mi rendo disponibile ad eventuali domande. Già da questo primo
colloquio, possono emergere alcune delle caratteristiche che
contraddistinguono ciascun essere umano facendone un individuo unico.
Considerando che ciascuno di noi usa generalmente poche - e sempre le
stesse - modalità per rapportarsi agli altri, mi è molto utile, ai fini
della conoscenza di quella persona, osservare attentamente come si
relaziona con me. Uno degli aspetti che più facilmente, anche se non
sempre, si manifesta fin dall’inizio è il “bisogno di controllo”.
Si tratta spesso di una persona precisa, controllata, perfezionista, che
fa moltissime domande e che tende a ripetere le risposte, come per
accertarsi di aver capito bene. Se e quando una terapia ha inizio, questa
persona ha in genere una certa difficoltà a rispettare il setting* e
tende ad “imporre”, senza accorgersene, delle regole proprie. Il modo
di porsi nei miei confronti, nella mia veste di esperta (ma come dicevo,
la stessa cosa può accadere nei confronti di altri interlocutori, esperti
e non) funziona secondo il seguente modello: “Se io riesco ad ottenere
il massimo delle informazioni possibili, non avrò più bisogno di nessuno
e potrò quindi sostituirmi a te. In altri termini sarò io ad avere il
controllo. Viceversa dovrei affidarmi a te, e fidarmi di quello che mi
stai dicendo”. A prima vista questo comportamento può essere
interpretato e definito come pura curiosità, o come normale utilizzo
della competenza altrui, ma a livello inconscio, è come un volersi
impossessare di tale competenza, nell’illusione di poter gestire da soli
qualsiasi cosa. La conseguente correlata illusione è quella di poter
stare tranquilli, di sentirsi sicuri. Un’altra conseguenza - non
intrapsichica, questa, ma interpersonale - è una quasi inevitabile
irritazione dell’esperto interpellato, che si sente usato non come
esperto appunto, ma come distributore automatico di informazioni, in
pratica si vede trasformato, suo malgrado, da avvocato, o medico, o
architetto quale è, in un Bignamino della propria materia. E adotterà a
sua volta dei comportamenti inusuali che potremmo definire “di
difesa”. A meno che non si tratti di uno psico-esperto, il quale
utilizzerà le proprie sensazioni come strumento utile alla terapia. Perché
accade questo? Perché non si riesce a fidarsi degli altri; perché ci si
ritiene comunque superiori; perché si è stati o si ritiene di essere
stati traditi da qualcuno di cui ci si era fidati. I motivi, causali ma
mai casuali, possono essere moltissimi, e naturalmente non possono non
risalire all’infanzia, alla famiglia di origine, al clima in cui si è
nati e cresciuti. Qualcuno potrebbe obiettare che in fondo si tratta solo
di prudenza e che “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”. Certo,
quando è così, quando effettivamente queste persone ottengono ciò che
vogliono, e cioè sentirsi tranquille e rassicurate, non c’è motivo di
pensare che abbiano qualche problema. Ma se non è così? Come mai spesso
queste persone soffrono d’insonnia, di crisi d’ansia apparentemente
immotivata, di disturbi psicosomatici assortiti? Perché è praticamente
impossibile - per chiunque - avere TUTTO sotto controllo. C'è sempre
qualcosa che non so, che non capisco, che mi sfugge. E quindi bisogna
sapere tutto, leggere tutto e subito, bisogna documentarsi continuamente e
ossessivamente, bisogna cercare di ottenere il massimo delle informazioni
possibili da chiunque sia in grado di darle. E tuttavia, ci sarà ancora
qualcosa che non so, che non capisco, che mi sfugge. E questo crea
inquietudine e angoscia. E poi bisogna continuamente dimostrare a se
stessi di essere capaci di ottenere nuovi risultati, di superare nuovi
ostacoli, sempre allo scopo di tranquillizzarsi, di conquistare quella
sicurezza che andrebbe ben altrimenti ricercata. Che fare? Cercare,
spietatamente, di conoscere e riconoscere i propri limiti. E poi
accettarli. Perché a nessuno è richiesta la perfezione.
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