L'ESPERIENZA
DEL LIMITE COME POTENZIALITA' DI CRESCITA
Laura Bonanni
Ciascun essere
umano presenta dei limiti: visibili oggettivamente, o poco visibili, da
parte di un osservatore esterno.
Tutto ciò che è visibile ci rende, per certi aspetti, più soggetti al
giudizio, alla critica, alle considerazioni dell'altro. Ed è chiaro:
perchè quello che si discosta dal consueto, dall'abituale, dal
“noto”, fa più figura, rispetto ad uno sfondo, quindi spicca e
“cattura” l'attenzione altrui.
Il timore del
giudizio, la paura di fare una “brutta figura”, lo sforzarsi di essere
all'altezza delle presunte aspettative, in noi riposte, il desiderio di
sentirci parte di una realtà relazionale, sono esperienze più o meno
comuni a tutti gli esseri umani ed in certe fasi della vita (come
l'adolescenza, ad esempio) sono vissute con più forza e necessità.
Anche quando siamo più
stanchi e stressati, depressi e demoralizzati, tali stati d'animo tendono
a riaffacciarsi, bloccandoci ed impedendoci di sentirci “adeguati”
alle varie situazioni sociali, più vulnerabili alle "critiche"
ed al giudizio altrui.
I valori e le credenze
della famiglia in cui siamo cresciuti (introietti genitoriali), il modo di
concepire la vita, il tipo di educazione che abbiamo avuto, esercitano una
notevole influenza sull'idea che ci costruiamo di noi stessi e di noi in
rapporto agli altri, di noi in rapporto alle esperienze di vita.
In alcune famiglie, ad
esempio, l'idea di “vincente” è fortemente veicolata e
condizionata, da una visione (erronea) di “perfezione”. Quindi
potrebbe accadere che, fin da piccoli, i bambini ricevano messaggi,
verbali e non, del tipo: “sii perfetto”, “non essere te stesso”,
“compiaci” (cioè, cerca di piacere agli altri, mettiti nelle
condizioni di “essere gradito”), "sforzati" (cerca in tutti
i modi, di farcela da solo), "non sentire" (ad esempio il
dolore, il dispiacere, per una propria diversità), “non esistere”
(non va proprio bene che tu sia così, quindi è meglio che tu “non ti
faccia vedere”).
Una volta divenuti
adulti tenderemo a comportarci, più o meno consapevolmente, risentendo
dell'influenza di alcuni di questi messaggi che, pur non così chiari in
noi, tuttavia potranno palesarsi mediante comportamenti visibili ed
osservabili come ad esempio l'evitamento di sitazioni sociali di vario
tipo: mangiare con gli altri in locali pubblici, andare a feste, fare
attività sportive,ecc.., avere una sproporzionata paura di stabilire
delle relazioni di intimità affettiva, evitare di investire energie in
lavori o attività che richiedono una certa dose di competitività sana (
ad esempio nel campo dello studio e del lavoro).
Non serve, o comunque
è di scarsa e poco durevole utilità, dire ad una persona che mette in
atto dei comportamenti di evitamento (o delle strategie articolate di
evitamento), che deve sforzarsi..., che è come gli altri..., che ha il
diritto di fare quello che desidera..., che “al mondo c'è posto per
tutti”.
Questo perchè, il
livello comportamentale è solo la punta dell'iceberg, la manifestazione
di un problema. Sotto tale livello ne esiste uno di tipo cognitivo che è
facilmente rintracciabile, parlando con la persona e consiste nel cosa
essa si dice dentro di sè, per bloccarsi o impedirsi dal mettere in atto
alcune tipologie di comportamento diverse dalle abituali, divenute
automatiche. Quali sono le sue comvinzioni rispetto a sè, agli altri ed
alla vita?
Tuttavia, spesso, il
discorso non è così “semplice”, perchè le nostre abitudini erronee,
i nostri comportamenti di “fuga dal campo”, hanno radici antiche, così
antiche e radicate in noi da portarci a dire che “siamo fatti così”,
che siamo così da sempre!
A questo punto il discorso si arricchisce di un ulteriore livello: quello
emotivo, più profondo ed antico, che ci porta a pensare ad un'età in cui
le competenze linguistiche ancora non erano state acquisite (prima dei 2
anni).
Il fatto che esista un
tale livello “in azione”, è dato dalla sperimentazione di uno strano
senso di imbarazzo, magari non congruente a quella specifica situazione,
oppure un immotivato senso di colpa, una sottile ma costante
inspiegabile paura, ecc....
I sentiment, le
emozioni, sproporzionate o inadeguate, sono il “vero campanello di
allarme”, la “spia luminosa”, che ci segnalano che qualcosa non stà
proprio andando per il verso giusto!
Nel caso in cui un
bambino nasce con un chiaro ed evidente limite fisico (come ad esempio può
essere quello visivo), la famiglia si trova inevitabilmente a doversi
confrontare con una diversità e quindi con tutte le conseguenze che
questa comporta, sia al livello organizzativo/gestionale, che al livello
di vissuti interiori, cioè concernenti proprie aspettative,
fantasie,convinzioni, che rappresentano retaggi educativi interiorizzati.
La gestione pratica
del problema può (non sempre) essere affrotata e gestita con una certa
dose di pragmaticità.
La questione si fa più complessa quando invece bisogna fare i conti con
il proprio mondo interiore ed i suoi messaggi.
Così, il figlio
ipovedente può attivare o riattivare, anche inconsapevolmente, nel
genitore, tracce di quei messaggi , verbali e non, di cui parlavo prima,
messaggi che condizionano la possibilità di stabilire un autentico
rapporto con il nuovo piccolo membro della famiglia.
Egli, infatti, pur se portatore di un handicap, ha comunque delle sue
risorse e capacità che vanno conosciute e potenziate.
Ecco quindi che
i genitori oltre a mettere in atto delle modalità
comportamentali specifiche e visibili, come quelle iperprotettive o
di allontanamento-negazione, ad esempio, riattivano antiche "memorie
emotive", vero motore delle modalità comportamentali esplicitate.
L'esperienza del
limite può veramente rappresentare una potenzialità di crescita per
l'intero sistema familiare perchè mette in discussione erronee
convinzioni e decisioni, frutto di pregiudizi genitoriali e fantasie
infantili.
Questo sarà possibile
soltanto nella misura in cui si è disposti ad accogliere la
"sfida" che la vita implica in sè.
Discorso non facile e
non scontato, ma di certo non impossibile!
Concludiamo con una
bella e significativa esplicitazione concettuale del Dottor Michele
Novellino (Psichiatra-Psicoterapeuta), che ben sintetizza la ricchezza
della complessità di cui siamo portatori :
“Ciascuno
di noi ha punti di forza e di debolezza risultato di almeno tre fattori
che interagiscono in modo complesso e spesso imprevedibile:il primo è
dato dalle nostre caratteristiche individuali, ciascuno infatti ha un
proprio corredo genetico anche di tipo psicologico;il secondo fattore è
dato dalle circostanze di vita ;il terzo fattore, l'unico per il quale gli
psicologi possono dire costruttivamente la loro , è dato dall'ambiente
psicosociale di origine.....rete complessa di influnze e di messaggi che
il boambino riceve dalle persone che lo allevano (genitori, parenti,
insegnanti, idoli televisivi e simili”.
(Dal
libro “La Sindrome dell'Uomo Mascherato”).
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