La piccola lampada sul ripiano del comò in soggiorno è accesa. Lui è
seduto sul divano. Qualche ricordo, un po’ di riepilogo. Immagini
passate sbiadite da un presente che sta abbassando la testa, che stenta a
proseguire.
Ora pensa a quand’era ragazzo. A scuola non ci andava, e quando ci
andava si faceva cacciare fuori dall'aula. Non li digeriva per niente i
professori. "Tu hai buone capacità, potresti riuscire a fare delle
ottime cose in futuro" gli diceva l’insegnante. Ma per lui era
un’altra lingua. Non che fosse cattivo o altro, solo che la scuola gli
piaceva ancora meno di quanto non piacesse ai suoi coetanei.
Un giorno lui e Sandro, l’amico del palazzo in cui abitava, decisero di
scappare via da casa e se ne andarono a Roma. Erano le otto del mattino.
Alle sei di sera erano all’ingresso dell’autostrada a fare
l’autostop per tornarsene ma nessuno voleva dargli un passaggio, allora
lui si stese per terra e fece finta di sentirsi male mentre Sandro agitava
le mani verso le auto che arrivavano. Un uomo si fermò e chiese cos’era
successo e Sandro gli disse che all’improvviso il suo amico si era
sentito male. L’uomo li fece salire e si avviò verso l’ospedale più
vicino, ma dopo un centinaio di metri li sentì sghignazzare e capì che
l’avevano preso in giro, ma loro lo supplicarono spiegandogli tutta la
situazione e lui alla fine decise di portarli ugualmente fino al punto in
cui si sarebbe dovuto fermare, poi se la sarebbero cavata in un altro
modo. Arrivarono a casa all’una di notte, e furono mazzate di quelle
pesanti.
Quand’è che aveva cominciato a lavorare in fabbrica? A diciassette o
diciotto anni. Le catene di montaggio e le paranoie e i casini di quegli
anni. La gente girava armata, pure i poveri cristi erano costretti a
girare armati. Erano gli anni di piombo e gli anni in cui i ferri si
trovavano facilmente, ma erano anche gli anni in cui la camorra
organizzata cominciava a darci dentro di brutto. Qualche operaio si
presentava a lavoro con un sacchetto bello pesante e chiedeva al capoturno
se poteva mettere la merenda nel terzo cassetto, e il capoturno che sapeva
come andavano quelle cose gli diceva va bene.
Poi c’erano gli scioperi. Scioperi su scioperi, sciopero per ogni
cazzata. Era proprio durante uno di questi che aveva conosciuto Diana, che
all’epoca lavorava anche lei in fabbrica e faceva i turni nel secondo
stabilimento. La prima volta che uscirono insieme ebbero un incidente con
l’auto di lui e lei si tagliò sulla fronte.
Quando si sposarono lei era già incinta, ma non si sposarono affatto per
quello. Si sposarono perché l’avevano previsto già da tempo, ed era
capitato che lei fosse rimasta incinta prima. Il viaggio di nozze lo
fecero lo stesso, in Spagna.
Il giorno in cui nacque Luca fu un giorno magnifico per entrambi,
finalmente conoscevano la felicità che tutti dicevano di provare. E
magnifici furono i giorni che seguirono. Poi cos’è che successe?
Niente, si scoprì che Luca era sordomuto, ma che con l’aiuto di
un’apposita scuola e con molta volontà poteva trovarsi un buon posto
nella società e riuscire ad avere un’esistenza discretamente felice.
Bisognava non dare eccessivo peso alla sua condizione, c’erano tanti
altri ragazzi come lui.
Così si andò avanti. Lui superò un concorso di lavoro ed entrò come
impiegato in una nuova azienda. Trovarono un appartamento in affitto ad un
prezzo conveniente e vi si trasferirono lasciando la casa dei genitori di
Diana. Lui riusciva a mettere da parte qualche soldo per l’estate e per
le vacanze. Luca cresceva bene.
Un paio di mesi dopo aver compiuto i dieci anni la salute di Luca declinò
rapidamente. Cominciò a non vedere bene, sembrava non saper distinguere
gli oggetti. Poi prese a sbandare, doveva appoggiarsi alle pareti per
proseguire. Poi cadde a terra e non riuscì più a rialzarsi. Non riusciva
a rimanere in piedi, come se nelle gambe non gli fosse rimasto nulla, come
se fossero trasparenti. In un breve arco di tempo era diventato incapace
di fare qualsiasi movimento, gli arti si erano incrinati e non c’era
verso di fargli riprendere la loro funzione naturale, la vista era quasi
sparita. Un vegetale, ecco quello che era realmente diventato.
Perché e perché e perché. Da dove veniva tutta quella crudeltà, qual
era il suo dannato nome e quello del guerriero abilitato ad annientarla,
dov’era la cura. Silenzio, nessuno sapeva niente.
Il nome del mostro era LEUCODISTROFIA, una malattia di cui si sa poco
perché rara. Può colpire il bambino dalla nascita fino all’adolescenza
inoltrata, è suddivisa in varie fasi, quella di Luca viene chiamata
‘giovanile a esordio tardivo’; la sostanza grigia del cervello
invecchia in maniera impressionante, i nervi non vengono più stimolati,
l’intero sistema nervoso cade in pezzi, ogni cosa cade in pezzi. Il
cervello non è più in grado di inviare comandi al resto del corpo. Se
vuoi chiudere o aprire una mano, spostare un braccio o una gamba, non sei
padrone di farlo. E il rimedio? Non esiste rimedio, la scienza medica non
l’ha trovato, sono stati effettuati pochi studi al riguardo, è una
malattia rara.
Oggi Luca compie diciotto anni. Praticamente non ha più carne addosso,
gli sono rimasti la pelle e le ossa. Gli unici segni che dà sono i
lamenti. Tristi uggiolii, amari uggiolii che di notte sembrano racchiudere
tutti i mali di questo mondo a cui si possono dare mille risposte e
nessuna. Diana lo accudisce e gli sta vicino dividendosi fra lui e i
compiti che ci sono da svolgere ogni giorno. Lo nutre con cibo tritato,
gli apre la bocca e lo fa deglutire. Diana è una donna in gamba.
Lui intanto continua a fare del suo meglio per far quadrare i conti, le
spese ed il resto. Ma ultimamente le cose non è che vadano tanto bene.
Corre voce che l’azienda sia in crisi, che potrebbe chiudere da un
momento all’altro. E corre voce che il suo comportamento non sia molto
rispettabile da un po’ di tempo a questa parte, che si stia assentando
troppo.
Ma siamo a Giugno, e la sera è così rilassante rimanere seduto a fumare
all’arietta fresca o a guardare un buon film alla TV dopo aver cenato
con quel vino bianco ghiacciato, con Diana che gli ricorda di andarci
adagio e di non dimenticarsi che ha problemi allo stomaco e di quello che
gli ha detto il dottore. Il dottore, l’ultima volta che ci è andato gli
ha fatto un discorso un po' strano : "...io comprendo la tua
situazione, ma dobbiamo essere abbastanza forti da riuscire a vedere il
tramonto e il giorno finire, e accogliere la nuova alba a testa
alta." Sembrava un profeta da come parlava. Come fai a fargli capire
che è rilassante. La mattina quando ti svegli e invece di andartene a
lavorare te ne vai girando per le strade, ti fermi a un paio di bar,
attacchi discorso con qualcuno e vedi la gente tutta indaffarata sotto il
sole mattutino.
Ma da quando in qua è nato quest’atteggiamento da sognatore, Diana se
lo chiede, perché non è mai stato così. Lui non le vuole dare
spiegazioni. Certi giorni, la mattina presto, lo trova a parlare da solo
con Luca.
Il tempo che è passato. La pazienza e la costanza che ci sono volute, e
che ci vogliono. Non si dimenticano. Come quel periodo in cui diventò
intrattabile. I colleghi di lavoro non gli rivolgevano più la parola,
neanche i familiari volevano averci a che fare, a casa non veniva quasi più
nessuno a trovarli. Restava sempre zitto, e quando parlava era per
arrabbiarsi o per prendersela con qualcuno. Fu sicuramente lì che cominciò
ad accusare le prime fitte allo stomaco. Un periodo difficile, fra tutte
le altre cose che c’erano da sostenere, ma per fortuna riuscì a
superarlo.
"Cos’è che non va? Cos’è che non va?" La voce di Diana era
uguale a quella dell’insegnante di scuola, un’altra lingua.
Un sorso di caffè freddo, è quello che ci vuole. Si alza e va in cucina,
apre il frigo, prende la bottiglietta e se ne versa mezza tazza. Non
riesce a spiegarsi il perché, ma gli è venuto in mente il giorno in cui
stava quasi per ammazzare Diana senza volerle far del male
intenzionalmente, circa un anno fa.
Di quel giorno ricorda varie fasi in particolare. Stava tornando a casa in
auto e c’era traffico, si voltò alla sua destra e vide degli operai che
probabilmente stavano aspettando il furgone che saliva da una strada alle
loro spalle e che doveva condurli a casa dopo una giornata di lavoro.
C’erano due uomini poggiati al muro e un ragazzo con una bottiglia di
plastica che spruzzava del liquido azzurrino e ghignava e faceva dei versi
verso il primo di questi. Quest’uomo aveva gli occhiali ed era robusto,
e riceveva gli spruzzi senza reagire, rassegnato, con un’espressione del
viso davvero comica, come a dire guarda che mi tocca sopportare prima di
andarmene a casa. Lui seguì tutta la scena e gli venne da ridere, e
ancora oggi quando ci pensa gli viene da ridere. Superato il traffico sostò
al bar per bere un aperitivo, e lì si mise a parlare con un camionista di
passaggio. Gli disse che aveva un figlio di diciassette anni. Così il
camionista gli chiese come se la cavava il figlio con le ragazzine, e lui
gli rispose che le tormentava; che proprio il giorno prima l’aveva
beccato su un motorino assieme ad una spilungona bruna; che non pensava ad
altro. Il camionista gli sorrise e gli diede una pacca sulla spalla.
Quando tornò a casa, si sedette di fronte a Luca e rimase lì a fissarlo,
a fissare la sua faccia scavata, la bocca spalancata e gli occhi aperti
nel vuoto, le mani come quelle di un anziano paralitico di novant’anni.
Diana non era ancora tornata. E quando tornò aprì la porta e si presentò
con tre buste piene di spesa, le rovesciò sul tavolo e fece un sacco di
casino mettendosi a farfugliare discorsi a proposito di argomenti che solo
lei conosceva. Poi andava vicino a lui e lo scuoteva chiedendogli se la
capisse, se la ascoltasse. Allora lui che non era dell’umore più
allegro le diede una piccola spinta per farla smettere e Cristo in croce
la vide inciampare e sbattere con la testa sul tavolo di marmo e non
muoversi più.
Quando la portò all’ospedale il medico gli disse che la moglie era
stata fortunata, della gente era finita in coma per delle banali botte
simili a quella.
Il giorno successivo la accompagnò a fare degli accertamenti che gli
aveva consigliato lo stesso medico e nel traffico furono tamponati
lievemente da un’auto. Lui accostò, scese e vide che la sua auto era a
posto. Poi accostò anche l’altra auto e lui vide che aveva il faro
anteriore destro spaccato. La guidava una ragazza sui vent’anni tutta
agghindata e messa bene, ma quando scese cominciò a sbraitare e a
sbattersi come una gallina. Lui la fissava, poi venne Diana, lo prese per
un braccio e gli disse che potevano pure andarsene. Si rimisero in auto e
la lasciarono là come se per loro fosse un essere inesistente.
Diana è a casa. Ha comprato una torta per festeggiare questo giorno
nonostante tutto. Quando si dice ottimismo. Ma Luca ha raggiunto i
diciott’anni, è maggiorenne, l’età in cui i ragazzi diventano
consapevoli delle loro scelte. Certo, in questo caso non c’entra un
cazzo, come non c’entrano le feste in discoteca e al ristorante e gli
amici e i parenti e i regali, ma che importa. Va in soggiorno e dà un
bacio a Luca, steso immobile sulla sedia a sdraio. Sul tavolo nota un
messaggio, l’ha lasciato lui, dice che è sceso da poco e che tornerà
più tardi.
Diana mette la torta in frigo e consulta l’orologio in cucina, sono le
sette e mezzo di sera.
"Questo pub è comodo" gli dice uno che sta seduto affianco a
lui vicino al bancone. "E’ comodo perché c’è un bel po’ di
spazio fra il bancone ed il resto del locale, così le comitive e le
coppiette che stanno seduti ai tavoli non rompono le palle con le loro
cazzate a chi sta seduto al banco. E poi guarda, è l’una e c’è
ancora tanta gente. Non ti senti solo; non come in quei bar dove alle
undici e mezzo non c’è più nessuno e ti senti uno che se ne va a casa
più tardi di tutti e ti sale la tristezza. Qui no."
Sono le due. Diana è a letto, ma sveglia. Sente i passi in casa. Lui va
in cucina, apre lo sportello del frigo e vede la torta, richiude lo
sportello. Diana dal letto riesce a vedere il balcone, dove lui è
poggiato alla ringhiera e sta fumando l’ultima sigaretta. Diana guarda
Luca, poi guarda di nuovo lui, poi si sposta su un fianco, chiude gli
occhi e cerca di addormentarsi.
P
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