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NOI E LA LUCE

Marco Esposito

 

Gennaro dice che stamattina l’aria è fresca, nonostante siamo agli sgoccioli di Luglio. Dice che tre anni fa, in questo periodo, lui si trovava in Egitto a lavorare, ed era una cosa impossibile perché con quel caldo non ti potevi muovere. Stavano installando l’impianto di un grosso centro commerciale. La squadra era di venti operai di cui sei italiani compreso lui. Da fermo si sudava, ti abbassavi per prendere un cacciavite ed era una doccia. Ci dovevi essere abituato a quelle temperature per sopportarle. Oggi dovrebbe arrivare il capo della baracca, quello che ci paga tutti, per intenderci. L’ultima volta che è venuto è rimasto insoddisfatto. Disse che impiegare nove operai per passare i cavi dal pianoterra al terrazzo era uno spreco. Chissà se si rende conto che fra il pianoterra e il terrazzo ci sono altri dieci piani, ci chiedemmo noi. Ma per fare il mestiere del boss ti devi comportare in un certo modo, dice Gennaro. E’ l’esperienza sul campo che te lo insegna, l’esperienza di chi è passato da cantiere a cantiere da quando aveva quindici anni. Un buon boss lo sa come se la passano gli operai, perché anche lui c’è stato dentro, ma quando esagera ti fa comunque girare le palle. Perché quando lavori davvero e poi qualcuno viene a dirti che le cose non vanno per il verso giusto cominci a fottertene e ti viene lo schifo. E sono momenti fastidiosi perché vengono a crearsi contrasti fra i tuoi stessi compagni, ti viene la nausea e la giornata diventa pesante. Questo è quando si dice ‘faticare schiattati in corpo’, quando la sera hai bisogno di uno sfogo o di qualsiasi altra cosa che ti faccia allontanare dalla merdosa giornata che hai appena vissuto. A noi capita parecchie volte, a noi capita sempre. Gennaro parla, mentre col tester controlla se c’è corrente su una vecchia linea proveniente dallo scantinato. Io lo guardo mentre srotolo la seconda matassa di cavo. Oggi fa un po' il filosofo, ma meno male che c’è lui a parlarmi. La stanchezza che mi ritrovo addosso è assembrata ad un’indifferenza che si fa sempre più greve e allarmante. Penso a Lino o a Franco in questo momento, altri due ragazzi della mia squadra, che quando parlano delle loro ragazze gli si illuminano gli occhi e sembra che per tutto ne valga la pena. Ieri sera ho toccato l’eroina. Era l’ultima botta e la volevo conservare per il prossimo sabato del cazzo. Ma è successo che eravamo tornati da lavoro e mi ero fatto per primo la doccia. Erano le otto meno venti e me ne stavo con l’accappatoio addosso attaccato con la fronte al vetro della finestra a guardare nelle case del palazzo di fronte. E vedevo una signora portare dei piatti a tavola, dei bambini litigare davanti alla televisione, una ragazza che stendeva il suo costume ad asciugare. E mi sentivo di merda. E pensavo a delle persone che non vedevo da molto tempo. Accesi la radio. Stavano mandando una vecchia canzone cantata da Ella Fitzgerald, ‘Summertime’. Cominciai a sentirmi veramente nervoso. Ricordai di come avevo saputo reagire alla grande e nascondere questi lunghi momenti difficili in situazioni ben più complicate e paranoiche, ma niente. Urtai per errore il posacenere che stava sul davanzale e lo feci cadere. Franco udì il rumore e venne da me. Mi guardò, io lo fissai scuotendo la testa e lui se ne tornò alle sue cose. Presi quell’ultima botta che mi era rimasta e me la feci. Siamo a cinquecento chilometri da casa, stacchiamo come minimo dopo undici ore al giorno, lavoriamo a nero, e sabato e domenica dobbiamo fare giornata intera perché c’è un lavoro da finire. Ma io ieri sera pensavo che non è poi tanto male, anzi è quasi bello. Già, perché si guadagnano bei soldini e io me li posso spendere come mi pare e piace, perché non sono come Gennaro che ha una famiglia da sfamare. Io me la posso godere, ho sempre la moneta in tasca e me la godo un mondo, guardate, sono tutto sorrisi e felicità.    I LOVE YOU BABY* era il mio motto ieri sera, e i ragazzi che stavano con me l’hanno capito. Stiamo passando i cavi. Gennaro ha terminato il suo discorso ed ora è in vena di scherzare.  “Caro, che facciamo di eccitante in questo uikkent?” Io lo guardo e gli accenno un mezzo sorriso, non ho proprio voglia di parlare. Ma lo so bene cosa faremo. Sabato sera qualcuno andrà a letto presto, o magari si addormenterà al ristorante, messo giù dalla stanchezza e dall’alcool. Noi passeremo un po’ di tempo a sfotterlo, poi lo accompagneremo a casa e lo metteremo a letto. Scenderemo di nuovo e andremo a fare gli stupidi in mezzo alla gente, con tante soste al bar e tanti brindisi, e quando non ne potremo più ci ritireremo. Dormiremo tre o quattro ore e domenica la passeremo sul cantiere come degli zombi. Chiedo a Gennaro se gli piace il mestiere che fa. Già so le risposte che mi darà. E’ che mi va di sentirlo parlare, a volte mi dà un ironico coraggio. Allora lui comincia con quelle sue cazzate. Dice che la prima cosa per la sicurezza è la luce, l’illuminazione. Dice che l’elettricista è una figura importante. Che in questo mestiere ci vuole l’arte nel fare le cose, come in tutti i mestieri in cui si usano le mani, dove ci vuole la pratica e l’esperienza. Dice che noi è come se avessimo in dono una mano di Dio, perché dove andiamo portiamo la luce. Cosa sono una casa o un palazzo senza corrente? Senza elettricità? Zone morte, questo sono. Noi gli diamo vita, facciamo in modo che la gente possa viverci dentro. Se un posto qualsiasi ha bisogno di uscire dal buio e dalle tenebre,   basta che chiami noi. Dice che a furia di averci a che fare con la corrente, lui non ha neanche più bisogno dei fili, basta che si concentri un poco ed è capace di darti una buona dose di elettricità. Mi narra di quando ha preso la botta più pesante della sua vita, una scossa che avrebbe potuto metterlo sotto terra. Stava cablando un piccolo quadro di prese industriali a 380 V, quando un muratore a cui serviva il martello pneumatico, credendo che gli elettricisti quel giorno non ci fossero, cominciò ad alzare i vari interruttori del quadro generale per avere la corrente dove gli serviva. Non era niente completo, non c’era neanche un salvavita, e quando Gennaro andò a spellare con sicurezza un cavo collegato col principale proveniente dal quadro vi rimase attaccato  non rammenta per quanto tempo fino a che non ebbe un violento sbalzo e tutto svanì. Si svegliò sotto gli schiaffi dei muratori. Uno di loro gli porgeva un fiasco di vino rosso e gli diceva che doveva bere un po’ per riprendersi. Gli altri gli davano pacche sulle spalle e gli dicevano che ne aveva di sostanza. Aveva una mano ustionata e il maglione bruciato, poco dopo lo accompagnarono al pronto soccorso.Mi mette la mano davanti agli occhi e me la fa vedere. Il segno che si porta dietro. Lavoriamo per una mezz’oretta in silenzio, si sente qualcuno fischiettare al piano superiore. Poi Gennaro ricomincia a parlare. Mi racconta velocemente le storie di suo padre e di suo cognato. *I LOVE YOU BABY: sotto l'effetto dell'eroina. Dice che il padre è morto sette anni fa, a novantatré anni. Era una roccia. A novant’anni scendeva ancora da solo e andava a fare la spesa. Aveva perso la moglie dieci anni prima, ma tirava avanti deciso. Durante la prima guerra si era fatto sei anni di prigionia in Germania. Diceva che molti uomini al tempo d’oggi si atteggiano a tosti, ma che le loro esperienze sono ridicole se paragonate alle sue e a quelle di molti altri del suo tempo. Restare sei anni rinchiuso in una schifosa cella in un paese straniero perché sei un prigioniero di guerra. Più ci pensi e più ti sembra una cazzata. L’anima ti schizza fuori dagli occhi, ti annienti. E poi eccolo là, a fare la spesa a novant’anni col sorriso sulle labbra, come se la sua vita fosse trascorsa agiata e tranquilla, senza intoppi, senza i numerosi problemi di cui Gennaro mi ha parlato altre volte. E’ morto nel sonno, una notte d’Aprile, forse felice. Poi c’era suo cognato. A quattordici anni aveva cominciato a lavorare al comune di Napoli. A trent’anni era ancora lì, aveva messo su famiglia e da garzone era passato impiegato. Vicino ai quaranta aveva preso l’abitudine di frequentare certe squallide osterie di Napoli. Amava il vino fresco di cantina. Una sera se ne andò a bere con lo stipendio appena riscosso; si addormentò sul tavolo e quando si svegliò non aveva più una lira. Sigarette e vino di cantina. A cinquant’anni prese una caduta dalle scale di casa sua. Era ubriaco, si ruppe una gamba. Quattro anni dopo era di nuovo all’ospedale, una malattia ai polmoni: cancro.Gennaro dice che l’unico modo per far contento suo cognato era quello di andarlo a trovare con una bottiglia e un paio di pacchetti di sigarette. Quando ci andò, all’ospedale, il cognato rifiutò i regali con un gesto stanco della mano. Il giorno dopo chiuse gli occhi e se ne andò. Questa vita che è un dono di Dio. Ne sento parecchie di storie come queste; nei bar, sui cantieri, per la strada; raccontate da gente che ha più del doppio dei miei anni e si porta impressi in viso i segni di un’esistenza di stenti. A venti metri da noi c’è Lino, fermo e con lo sguardo fisso sulla parete su cui deve installare una tubazione esterna che gli ha assegnato il capo cantiere. Sta pensando al modo più veloce e meno faticoso per portarla a termine. Gennaro mi dà una gomitata per avvertirmi. Poi gli si avvicina lentamente senza lasciarsi vedere, gli va dietro e gli dà un grido in testa. Lino sobbalza e si mette a fare smorfie. “Che paua che paua che mi hai fatto pendeve! Che paua! Mamma mamma!” Sembra un deficiente vero. Gesù, guarda che ci fa fare il troppo lavoro. Lino, per esempio, è un ragazzo che posso reputare serio. Quando sta con la sua fidanzata non si sognerebbe neanche di avere una reazione così cretina. Eppure qui ne fa tante di stronzate, come tutti noi. Spesso, durante la giornata, ci comportiamo da imbecilli, diciamo un sacco di idiozie e di banalità, bestemmiamo per niente. Se qualcuno ci potesse vedere, ci reputerebbe come delle persone che nella vita non potranno mai avanzare di un passo, sepolte nella loro stessa merda.Così, tanto per dire, sperando che nell’aria ci sia qualche cazzo di entità superiore che possa prendere nota, chiedo a Gennaro cosa bisogna fare quando un uomo non riesce a trarre soddisfazione dalla vita che conduce. Ma Gennaro non può dare una risposta concreta a una domanda come questa, nonostante il suo filosofare, e poi ogni risposta sarebbe scontata. E oggi è solamente un altro giorno che deve passare. ANOTHER DAY, come cantava Robert Smith nel primo album dei CURE. Lui guardava alla finestra e aspettava che la luce del giorno svanisse. Qui guardiamo i buchi che facciamo col trapano, e la polvere a volte ci fa chiudere gli occhi.

 

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