GESTIONE
DELL'ANSIA, FOBIE, OSSESSIONI
(Spunti
teorici ed esercizi pratici)
Stefano
Coletta
Il buddismo da sempre insegna che se è l’Io quello che soffre,
accorgersi che l’Io è un illusione, dovrebbe porre fine alla sofferenza
(Venturini, 1993).
Ma cos’è ciò che chiamiamo Io? è la causa d’ogni nevrosi secondo
Watts (Watts,1978) e la sede dell’angoscia secondo Freud (Freud,1977).
In psicofisiologia l’Io è il coordinatore e il raccoglitore di tutte le
informazioni che provengono dai vari organi di senso; esiste in quanto
raccoglie tali informazioni, e tali informazioni formano l’Io (Ruggieri,2001).
Lacan invece, afferma che l’Io non è che il soggetto immaginario, ed è
strutturato esattamente come un sintomo; è il sintomo umano per
eccellenza, la malattia mentale dell’uomo (Lacan, 1978).
Da queste due diverse definizioni emerge un interessante considerazione:
la prima definizione ci rimanda ad un “Io” che si costituisce tramite
il continuo afflusso di informazioni che inondano il nostro corpo; la
seconda definizione guarda all’Io come una sorta di malattia mentale,
facendo però riferimento esplicito non più a quell’Io descritto dalla
psicofisiologia, ma bensì a quell’Io immaginato. Ecco allora come si
possa tracciare una linea di separazione tra gli opposti di un Io
costituito dalle informazioni che provengono dai vari organi di senso, ed
un Io invece solo immaginato, protagonista del film della nostra mente; e
forse è proprio questo l’Io che il buddismo insegna a dissolvere,
quell’Io che Lacan descrive come “malattia mentale dell’uomo”.
Ed è allora proprio dall’identificazione con questo nostro Io
immaginario che sorge l’ansia: Come in un film ci si identifica con
l’attore vivendo le sue stesse emozioni, così la nostra mente ci fa
vedere un film, un immagine mentale, in cui il protagonista (il nostro
“Io” proiettato nell’immagine) vive situazioni ansiogene; accade poi
che ci identifichiamo con quell’“Io” mostrato come fosse il nostro
attuale vero “Io”, vivendone le conseguenze ansiogene.
Ma come possiamo allora dar spazio a quel nostro Io costituito dal flusso
continuo di informazioni, accantonando quell’Io immaginario fonte di
nevrosi? Valorizzando i sensi, come insegna la meditazione (in particolare
quella cosiddetta di apertura), raccontandoci il presente: cosa c’è
intorno a noi, cosa si vede e si sente in questo momento, senza giudizi;
dar spazio insomma sia al racconto delle nostre nevrosi e sia al racconto
del nostro presente come in una sorta di mindfulness (Leahy,2007).
Detto ciò, ecco tre esercizi pratici, nuovi e soprattutto di facile ed
immediata realizzazione.
Un primo esercizio molto interessante consiste nel chiudere gli occhi e
riproporre mentalmente la scena che si avrebbe davanti aprendo gli occhi;
ciò è utile per farci stare nel presente, per aiutarci a contemplare il
"qui ed ora".
L'ansia abbiamo detto v'è quando Io mi vedo nell'immagine mentale, nella
scena ansiogena, quando cioè vedo il mio corpo come "altro da
me", quando sono spettatore di me stesso nella scena. Ecco allora
come un secondo esercizio pratico ed immediato potrebbe essere quello di
non guardarmi nell'immagine mentale, di cancellarmi, ma incominciare a
vedere solo ciò che il mio raffigurato mentale vede.
Infine, un ulteriore spunto pratico potrebbe essere quello di immaginare
la scena ansiogena, poi, ad uno ad uno, svuotarla di tutti i suoi
elementi, e infine domandarsi: "dov'è andata a finire la mia
ansia?".
BIBLIOGRAFIA
Freud, S., “L’io e l’Es” in Opere, Boringhieri, 1977.
Lacan,
J., “Libro I: gli scritti tecnici di Freud”, Einaudi, 1978.
Leahy,
R.,L.,"Sette mosse per liberarsi dall'ansia", Raffaello Cortina,
2007.
Ruggieri,
V., “Identità in psicologia e teatro”, MA.GI., 2001.
Venturini,
R., “Coscienza e cambiamento”, Ed.Grin, 1993.
Watts,
A., “Psicoterapie orientali e occidentali”, Astrolabio, 1978.
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