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Da dove nasce l’anoressia?

Adriana Gangemi

L’anoressia  è diventata un’entità clinica grazie a due medici: Gull in Inghilterra, nel 1874, che coniò il termine “anorexia nervosa”, e Lasègue in Francia, nel 1873, che la denominò “anorexie mentale”, per indicare il disturbo di alcune giovani pazienti che presentavano assoluta mancanza di appetito, forte dimagrimento, amenorrea [1], vomito, dolori gastrici. Nonostante l’origine di questo disturbo alimentare risalga ad un altro secolo, è considerato un male dei nostri tempi, forse per la pressione della società nei confronti di un’ immagine, soprattutto femminile, bellissima e magrissima.

Il DSM-IV [2] fornisce i seguenti criteri di diagnosi per l’anoressia:

● rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura;

● intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso;

● alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso;

● nelle femmine dopo il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi.

Inoltre differenzia due sottotipi:

Con Restrizioni: nell’episodio di Anoressia il soggetto non presenta regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione;

Con Abbuffate/Condotte di Eliminazione: il soggetto presenta regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, ecc.).

Sebbene i sintomi di tale disturbo siano evidentemente di carattere fisiologico, così tragici che possono condurre alla morte, l’anoressia è chiamata “mentale” proprio perché è una malattia di origine psicologica, inscindibilmente legata ad un disturbo psichico,  forse  meno evidente, cioè la “distorsione dell’immagine corporea”. L’immagine corporea è un concetto che riassume la vastissima gamma di atteggiamenti che ognuno di noi può sentire ed esprimere riguardo al proprio corpo. Lo psichiatra Paul Schilder, che per primo estese tale concetto dal campo neurologico a quello psichiatrico nel 1923, definisce l’immagine corporea “quel quadro del nostro corpo che formiamo nella nostra mente, ossia il modo in cui il nostro corpo appare a noi stessi.”  Si tratta di un concetto dinamico, costruito da tutte le esperienze sensoriali e psichiche e continuamente integrato nel sistema nervoso centrale. L’immagine corporea nasce con noi, dai primissimi giorni di vita, si sviluppa durante la prima infanzia, quando ancora il neonato si percepisce un’unità con la madre o con parti di essa, e si trasforma durante la crescita, subendo trasformazioni soprattutto durante la pubertà, culmine dei cambiamenti fisiologici e caratteriali. “I processi di costruzione dell’immagine corporea- afferma Schilder- non avvengono soltanto nel campo della percezione, ma hanno anche i loro paralleli nella costruzione del campo libidico ed emotivo”. Tale immagine è qualcosa di più di un modello posturale, derivante da movimenti e posizioni mutevoli del corpo,  è infatti uno schema integrato di tutte le esperienze organiche e psichiche immediate, una continua interazione di fattori diversi. Essa precede e determina la struttura del corpo stesso. Ciò avviene sin dalla primissima infanzia, infatti il bambino percepisce e fa propri i comportamenti degli altri verso il suo corpo e le sue parti e può quindi elaborare un concetto del suo corpo come piacevole e soddisfacente oppure come sgradevole e vergognoso. La costruzione dell’immagine corporea, quindi, è fortemente influenzata  dalle esperienze sociali e da come gli altri ci percepiscono ed interagiscono con noi e con il nostro corpo. Hilde Bruch, psichiatra e psicoterapeuta che si è occupata per anni di soggetti con disturbi dell’alimentazione, ampliò il concetto di Schilder, definendo l’immagine corporea anche come “l’esattezza o l’errore della percezione cognitiva del sé fisico, la precisione nel riconoscere stimoli provenienti dal di dentro o dal di fuori, un senso di dominio delle proprie funzioni corporee, la reazione affettiva alla realtà della propria configurazione fisica e il giudizio dell’individuo circa la desiderabilità del proprio corpo da parte di altri”. È evidente che se la nostra immagine corporea si identifica con il nostro schema corporeo reale, possiamo avere una consapevolezza di noi stessi nello spazio e nella relazione con l’altro, con un’aderenza alla realtà che ci garantisce un equilibrio psichico e relazionale. Nell’anoressia si crea una sfasatura tra l’immagine corporea reale e l’immagine corporea percepita, cioè un “disturbo dell’immagine corporea” , primo sintomo caratteristico dell’anoressia mentale. La Hilde descrive le sue pazienti come per nulla preoccupate della loro eccessiva magrezza, che difendono invece con forza e convinzione, negandone il carattere patologico. Esse giudicano le preoccupazioni di amici e familiari come prive di fondamento, dal momento che loro si sentono in forma e in ottima salute. La negazione del proprio aspetto denutrito è tipica dell’anoressia mentale. “ L’incapacità delle anoressiche – afferma la Bruch-  di “vedere” la loro magrezza è accentuata da un allenamento ad ingannarsi da sé. Esse si esercitano a guardarsi allo specchio, da tutti gli angoli, fiere di ogni libbra che perdono e di ogni osso che sporge e quanto maggiore è l’orgoglio per questo aspetto, tanto più insistono nel dire che è perfetto.» Dai racconti clinici della Bruch, si ottengono informazioni sull’inizio della malattia, e sulla spirale che trascina chi inizia una dieta per piacersi di più e finisce poi nel vortice della patologia. Ragazze, donne contente di vedere il proprio corpo diventare più snello, poi, improvvisamente il panico all’idea di poter riprendere peso, la visione distorta del proprio corpo, sempre troppo grasso, anche se la bilancia dice il contrario. Anche se poste di fronte ad uno specchio, esse negano la propria immagine scheletrica. Con un senso di smarrimento, esse non riescono a “vedere” quanto siano magre: “Davvero non riesco a vedere quanto sia secca. Guardo alla specchio eppure non riesco a vederlo; so di essere magra; perché quando mi tocco non sento altro che ossa”. Talvolta, chi ha un disturbo anoressico, riesce a vedersi troppo asciutta allo specchio, ma molto spesso non riesce a “tenere a mente” quella  immagine magrissima e, subito dopo, ritorna la percezione di sentirsi grossa. Solo dopo la guarigione esse si rendono conto, guardando per esempio delle foto scattate nel corso della malattia, di quanto fossero magre, e si meravigliano del fatto che, in quel periodo, fossero incapaci di accorgersene. Le percezioni ingannevoli di se stesse aiuterebbero a proteggersi da un’ansia profonda, quella di non essere una persona valida ed integrata nella società, capace di gestire la propria vita. Ed è per questo motivo che l’anoressia si auto-perpetua. Esercitando un rigido controllo sul proprio corpo, una persona pensa di poter indirizzare e ordinare la propria vita come ella desidera, cancellando la sofferenza causata dalla percezione della propria personalità debole ed inadeguata. Le persone con disturbi di anoressia, soffrirebbero di una profonda insoddisfazione nei confronti di se stesse e della loro vita, trasferendo tale insoddisfazione sul proprio corpo. Proprio il corpo viene quindi trattato come qualcosa di estraneo che bisogna proteggere dal pericolo di diventare “grasso”, cosa che si ottiene attraverso una disciplina eccessiva e un supercontrollo. Tutti gli sforzi compiuti, la lotta per raggiungere una perfezione ed una magrezza eccessiva, sarebbero diretti a mantenere nascosto il vuoto di una profonda inadeguatezza. Inoltre, l’attenzione che amici e familiari iniziano a dedicare alla persona con disturbo anoressico crea un circolo di auto-gratificazione che aumenta con il diminuire del peso. Per concludere, è considerato importante il recupero di un’immagine corporea adeguata e reale e di una corretta modalità percettiva e cognitiva nei confronti degli stimoli corporei, come premessa per una guarigione effettiva e duratura. È altresì ritenuto fondamentale per una guarigione dall’anoressia, il riappropriarsi di capacità di autodirigersi, di abilità a prender parte alla vita con una concezione unificata, e non separata, di sé e del proprio corpo, e un migliore esame della realtà. Fiducia in se stessi, autonomia, capacità di prendere decisioni ed iniziative: sono queste le cose che cerca di riprendersi chi soffre di anoressia, e tutto ciò richiede di vincere tante e difficili battaglie, iniziando a guardare il mondo con gli occhi reali, e non solo come vorremmo che fosse, per quanto doloroso ed imperfetto ci possa apparire.

 

BIBLIOGRAFIA.

 

Cuzzolaro M. (2004). Anoressie e bulimie. Troppo o troppo poco: un’epidemia dei nostri tempi. Il Mulino.

Bruch H. (1977). Patologia del comportamento alimentare: obesità, anoressia mentale e personalità. Feltrinelli Milano.

Bruch H. (1988). Anoressia. Casi clinici. Raffaello Cortina Editore.

Schilder P. (2002). Immagine di sé e schema corporeo. Franco Angeli.

Rapaport J. L., Ismond D. R. (2000) DSM-IV. Guida alla diagnosi dei disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza. Masson.


[1] Amenorrea: assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi.

[2] DSM-IV: manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

 

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