Agricoltura
e salute mentale
di
Alfonso Pascale
Fin
dalle prime battute, il dibattito scientifico che dette vita alla
disciplina psichiatrica tenne in considerazione le peculiarità
terapeutiche e riabilitative delle attività agricole. Tra i primi a
scoprirle è stato alla fine del XVIII secolo Benjamin Rush, considerato
uno dei padri della psichiatria americana.In ancien régime, gli infermi
di mente venivano ricoverati negli ospedali civili e curati come gli altri
malati e spesso finivano incatenati in qualche orrendo cronicario.
Nell’età dei Lumi la cura dei disturbi mentali venne, invece, assunta
dal progetto illuministico di riforma dell’ospedale come percorso di
“normalizzazione”, cioè di riconduzione dell’alienato, come veniva
chiamato all’epoca l’infermo mentale, alla razionalità e al senso
comune.Pertanto, curare la follia significava affrontare in chiave
diagnostica il problema dei confini tra ragione e non ragione, per
superarlo nell’ambito del processo terapeutico. Non si trattava quindi
soltanto di guarire un ammalato ma di raccogliere la sfida utopica alla
razionalizzazione della società. L’ordinato sviluppo della società
richiedeva, secondo il pensiero illuministico, un complesso intervento di
riforma delle istituzioni, al quale lo scienziato e il medico dovevano
dare il loro fondamentale contributo. Nel contesto della riforma
ospedaliera si delineava in tal modo un progetto istituzionale di cura
della follia di vasta portata. Progettato nell’ambito di una complessa
utopia di “normalizzazione” dell’etica sociale, il manicomio doveva
quindi assumere un significato del tutto particolare nel piano di
ricomposizione del malato di mente, divenendo esso stesso l’essenza
della cura, la rappresentazione spaziale e temporale della razionalità.In
quel progetto il lavoro agricolo è considerato “una sorta di
contrappeso agli smarrimenti dello spirito, per l’attrattiva e il
fascino che la coltivazione nei campi ispira, per l’istinto naturale che
porta l’uomo a fecondare la terra e a provvedere in tal modo ai propri
bisogni con il frutto del proprio lavoro”.
Tuttavia, pochi avvertivano l’aporia tra il modello “manicomio” e le
prerogative attribuite all’attività agricola.
La salute mentale nelle campagne e nelle città
Le menomazioni mentali erano molto comuni nella società rurale. Basta
scorrere i dati dei coscritti non idonei al servizio militare per rendersi
conto delle diffuse affezioni presenti nelle campagne dell’Ottocento e
della prima metà del Novecento.Parecchi casi di minorazione erano dovuti
ai matrimoni tra parenti stretti, che venivano contratti sia in ossequio
al pregiudizio tradizionale che faceva disapprovare la ricerca della
consorte fuori della propria comunità, sia a causa dell’isolamento in
cui si trovavano le diverse aree rurali.Le persone con disabilità
psichiche erano generalmente accudite dalle proprie famiglie e spesso
trovavano nelle medesime fattorie e nei villaggi rurali mansioni da
svolgere.Con l’inurbamento dei contadini e il loro impiego nel lavoro
industriale anche nelle città s’incominciò a registrare un notevole
incremento di persone affette da disturbi mentali. I ritmi e i sistemi
assolutamente diversi da quelli del lavoro dei campi causavano assai
sovente forme di disagio e di estraneamento ai nuovi abitanti dei centri
urbani. Ma non avendo le città un’organizzazione degli spazi e dei
tempi in grado di includere nel contesto sociale le persone affette da
disturbi mentali, erano in molti a varcare i cancelli degli spaventosi
cronicari dell’epoca ed a rimanervi reclusi e incatenati per il resto
della loro vita.Nonostante l’isolamento, in campagna si viveva in modo
completamente diverso dalla città: i corpi operavano al ritmo imposto dal
cuore e dai polmoni e i canti imitavano il ritmo con cui veniva compiuta
l’attività lavorativa. Erano, inoltre, i ritmi stagionali e liturgici a
determinare presso i contadini il senso del tempo. Ogni situazione aveva
il suo precedente e rimandava ad altra situazione uguale o analoga.
Passato e presente non erano distinti, ma facevano tutt’uno e formavano
un continuo vissuto e non una serie di tante unità scandite
dall’orologio. Una festa o un falò, un raccolto buono o uno cattivo, un
evento di famiglia vivevano nel ricordo e servivano da punto di
riferimento più naturale che il ricorso al calendario.E’ per questo che
i canti e i racconti su fatti vecchi di un secolo continuavano a sollevare
forti emozioni. Aveva valore relativo e, anzi, era pressoché senza
importanza che un fatto fosse accaduto di recente o in un lontano passato.
Il tempo tradizionale non aveva unità di misura invariabili e non
prevedeva neppure uno stacco tra lavoro e svago. Anche la perdita di tempo
(l’andare e venire, le pause, le attese) era in larga misura inavvertita
perché integrata nella routine quotidiana e perché non era mai cosa su
cui discutere.Nella lingua italiana con la parola “tempo” si indica
sia l’andamento meteorologico sia la durata. Noi oggi distinguiamo le
due cose, ma non così il contadino le cui ore più lunghe dedicate al
lavoro venivano con il bel tempo estivo. Per lui il tempo era lavoro e il
lavoro era un modo di vivere, non già un modo di guadagnarsi da vivere.Alla
luce di queste considerazioni appare in tutta evidenza quanto acuti
dovessero manifestarsi il disagio e l'alienazione di quella parte di
popolazione rurale che andò ad abitare nelle città ed a lavorare nelle
fabbriche, dove si praticavano ritmi di vita del tutto diversi.
Le colonie agricole
Laddove si prese coscienza che il disagio mentale era provocato dal
passaggio repentino a modelli di vita urbana ed al lavoro industriale, si
tentò di rimediare attingendo alle medesime risorse del mondo rurale. Fu
questo il caso degli alienati di Gheel, popoloso villaggio del Belgio
centrale, ma anche della colonia agricola di Clermont-Ferrand, in Francia,
e del Ritiro di York, in Inghilterra.Gheel era un centro poco distante da
Anversa che contava agli inizi dell’Ottocento circa 7 mila abitanti ed
era famoso perché centinaia di pazienti psichici venivano stabilmente
affidati dai parenti alle famiglie che vi abitavano, a pensione. Nel
paese, dove mancava qualsiasi asilo speciale per ricoverarli, i folli
erano ospitati in numero di uno, due, raramente tre o più, nelle case dei
contadini del villaggio o nelle fattorie della campagna circostante.Nella
colonia belga gli alienati partecipavano semplicemente alla vita e, per
quanto possibile, al lavoro dei loro ospiti. Ciò che più colpiva chi
accorreva a visitare il villaggio era la constatazione che, “sebbene
liberi, questi ammalati non (erano) mai cagione d‘accidenti gravi per le
donne incinte, né per i fanciulli”. Eppure Gheel ospitava un numero
tutt’altro che trascurabile di folli: dalle 400-500 persone del 1821 si
passò infatti a circa 800 a metà del secolo.Nella colonia agricola di
Clermont-Ferrand, un centro molto importante del Massiccio Centrale della
Francia, veniva invece adottato il modello della fattoria distaccata
dall’ospedale psichiatrico, dove i ricoverati erano occupati nelle varie
mansioni agricole nella convinzione che la vita e il lavoro dei campi
costituivano “uno de’ più preziosi mezzi di guarigione e di ben
essere per li alienati”. La creazione di fattorie connesse o distaccate
dai manicomi era considerata “un nuovo progresso nella sorte degli
alienati” ed ebbe una certa diffusione nell’Europa settentrionale.Il
Ritiro di York era stato fondato nel 1796 da Samuel Tuke, che faceva parte
della Società dei Quaccheri, un’aggregazione religiosa che fin dal 1649
si era occupata dei malati di menti sotto la guida di George Fox. Il
Ritiro era una casa di campagna dove gli infermi mentali avevano la
possibilità di vivere all’aria aperta e coltivare orti e giardini in
contatto con il mondo esterno, ricavandone indubbi benefici per le proprie
condizioni di salute.
In
Europa il manicomio fu subito messo in discussione
Il manicomio trovò una sua progressiva definizione istituzionale nella
prima metà del XIX secolo, ma doveva entrare attorno agli anni Cinquanta
di quel medesimo secolo profondamente in crisi in tutta Europa, da un
punto di vista umanitario non meno che scientifico. Vasti strati di
opinione pubblica, soprattutto in Francia e in Germania, denunciarono i
caratteri liberticidi del sistema manicomiale.In una vasta campagna di
stampa i manicomi furono indicati come il più grosso errore dei tempi
moderni, un residuo d’ignoranza e di barbarie. E’ Wilhelm Griesinger,
uno dei più influenti rappresentanti della cultura medica del suo tempo,
a mettere in luce con esemplare chiarezza la natura della crisi che
attraversava la scienza delle istituzioni per i malati di mente. Egli
sostenne con dovizia di dati che i manicomi considerati “buoni”,
costruiti cioè secondo le più aggiornate teorie della psichiatria
francese e tedesca, davano risultati altrettanto deludenti quanto le
strutture che sembravano assolutamente “cattive”, soprattutto per
quanto concerneva il problema della cronicizzazione dei ricoverati. E
concluse che non era la specifica struttura spazio-temporale, il
manicomio, capace di operare come principale agente terapeutico, ma al
contrario qualsiasi sito, grazie all’opera di un buon medico, poteva
diventare un luogo di cura.Nel 1866 egli si era recato in visita presso la
colonia agricola di Gheel, dove gli alienati, come abbiamo visto, erano
ospitati nelle case degli abitanti del villaggio.Ebbene, quella visita
colpì profondamente Griesinger, che legò strettamente la sua ipotesi di
un percorso di “liberazione” dei malati cronici a programmi di
“colonizzazione”, come veniva chiamato l’affido dei malati a
famiglie di contadini o la loro collocazione in fattorie.Di fronte
all’attacco all’istituzione manicomiale, le colonie agricole
diventavano, dunque, la nuova frontiera per risolvere soprattutto il
problema della crescente massa di cronici e recuperare i valori della vita
all’aria aperta, del rapporto libero con la natura, del lavoro
terapeutico per antonomasia: quello agricolo.Nonostante l’ammirazione
riscossa dall’esperienza di Gheel e l’interesse per le fattorie come
luoghi privilegiati di inclusione sociale dei cosidetti alienati,
diffusosi in vasti ambienti della psichiatria europea, il messaggio di
Griesinger non riuscì tuttavia ad incidere sulle scelte di politica
istituzionale e dette vita solo a programmi sperimentali in alcuni paesi.
In
Italia bisognerà aspettare il movimento di Basaglia
In Italia queste nuove idee giungevano quando ancora non si era nemmeno
messa a punto la riforma di stampo illuministico e dunque restò lettera
morta. Dopo quasi mezzo secolo di vani tentativi per introdurre
norme in materia di salute mentale, come da tempo era avvenuto in Francia
ed in altri paesi europei, solo nel 1904 venne approvata la legge Giolitti.
Incurante della profonda crisi che travagliava il pensiero psichiatrico
sul valore terapeutico del manicomio, la normativa introdusse una
connotazione puramente segregante della funzione manicomiale aprendo il
varco ad una frattura insanabile tra sapere scientifico e realtà
istituzionale.Sarà Franco Basaglia, negli anni Sessanta del secolo
scorso, ad indicare in modo prioritario l’urgenza di avviare un processo
di trasformazione istituzionale che avrebbe dovuto concludersi soltanto
con la distruzione della realtà manicomiale. Il problema centrale
diventerà quindi non tanto definire nuovi progetti di riforma quanto
giungere alla definitiva chiusura di un’epoca nella quale il pensiero
psichiatrico aveva alimentato un’utopia sociale e scientifica per
abbandonarla poi al suo naufragio.Solo in una fase successiva, cancellata
una volta per sempre l’incombente realtà manicomiale, si sarebbero
potute create le condizioni per una riflessione capace di coinvolgere
l’intera comunità attorno ad un progetto che muovesse utopicamente dal
superamento della categoria mentale della “norma” quale assunto
primario della condizione umana. Soltanto in una società in cui il valore
fondamentale fosse l’uomo, nel suo concreto e quotidiano oscillare tra
salute e malattia, il portatore di handicap, il menomato avrebbero potuto
trovare un piano di comprensione dei loro bisogni reali, evitando la
riproposizione, più o meno mistificata, di una risposta segregante.La
nuova normativa in campo psichiatrico che sarà varata nel 1978 si ispirerà
direttamente al pensiero basagliano per recepire non solo la distruzione
della “forma-manicomio”, ma assumere anche come proprio oggetto non più
“la determinazione dei confini della malattia” e quindi
“l’identificazione delle sue categorie” bensì il “trattamento
della malattia”, identificato dalla capacità del sistema dei servizi
territoriali di rispondere efficacemente al caso specifico. Il principio
informatore della legge non sarà più la “normalizzazione”
dell’alienato, come nei progetti riformatori ottocenteschi, ma il suo
diritto alla “risposta al bisogno” attraverso la rete dei servizi
sociali. Interrotto il canale di accesso al manicomio, “la
contraddizione tra istituzione e territorio” verrà superata dalla
territorializzazione dei servizi, che avrebbe dovuto promuovere “un
nuovo ordine di processi sociali”.
E così l’agricoltura moderna, nelle forme imprenditoriali e
multifunzionali in cui evolverà nei decenni successivi, tornerà ad
essere con le fattorie sociali spazio di vita ed attività da privilegiare
per le persone con disabilità mentali.
Le
funzioni terapeutiche e riabilitative dell’agricoltura moderna
A partire dagli anni Trenta del secolo scorso si cominciarono a praticare
programmi terapeutici e di riabilitazione basati sulla cura delle piante.
Nel dopoguerra nacque e si è sviluppata nei paesi anglosassoni una vera e
propria disciplina curativa che coniuga competenze mediche con quelle
botaniche: si tratta dell’Horticultural Therapy, solo da pochi anni
tradotta in Italia come “terapia assistita dalle piante”.Le attività
e le terapie assistite dagli animali sono, invece, nate in America nel
1953, grazie allo psichiatra infantile Boris M. Levinson, che, in base
alla sua esperienza, le definì come “insieme di pratiche ben specifiche
basate sull’incontro con un animale che non è di proprietà del
fruitore, ma si colloca in un rapporto a tre dove il conduttore
dell’animale ha come obiettivo la realizzazione di un rapporto che
attivi le capacità assistenziali dell’animale in modo tale che il
paziente ne usufruisca in base alla sua patologia”. Queste attività si
sono sviluppate integrando le esperienze concrete con la Zooantropologia,
scienza che studia le interazioni tra uomo e animali. A partire dagli anni
Sessanta si è iniziato ad identificare l’utilizzo di animali da
compagnia con il termine “Pet-Therapy” sostituito sempre più dalle più
appropriate locuzioni “Animal Assisted Therapy” (A.A.T.) e “Animal
Assisted Activities” (A.A.A.).Nell’ambito delle attività e terapie
assistite dagli animali, da oltre trenta anni nel nostro paese si pratica
l’ippoterapia, che, contaminandosi virtuosamente con l’equitazione, ha
contribuito alla diffusione dell’equitazione sociale. Inoltre, coi
progressi conseguiti negli ultimi quindici anni dalla nuova etologia, oggi
noi sappiamo molte cose in più degli equini oltre il sapere
tradizionale e possiamo perfino porci dal punto di vista del cavallo nel
nostro rapporto con questo animale.Negli ultimi tempi si va, infine,
diffondendo l’onoterapia, che si basa sulle relazioni particolarmente
intense ed empatiche che l’asino riesce a stabilire con le persone.Sempre
più cresce l’evidenza empirica che il contatto con il ciclo della
natura e della vita insito nell’attività agricola aiuta a
conseguire maggiori livelli di autonomia e di senso di sé rispetto ad
altre attività, da quelle industriali a quelle che si svolgono
negli uffici, che sono più ripetitive, frustranti e spersonalizzanti,
spesso fonti esse stesse di disagio. E tutto questo avviene anche perché
noi esseri umani siamo portati, per via di un sentimento innato che il
biologo Edward O. Wilson definisce "biofilia", a desiderare di
vivere in prossimità di una distesa d'erba verde o di uno specchio
d'acqua. Persino il volto più oscuro della natura - che si rivela con
inondazioni, terremoti, uragani e altri cataclismi – è in un certo
senso necessario alla completezza dell'esperienza umana: esso è, infatti,
il simbolo di quella dimensione selvaggia, di quella regione del mistero
che da sempre è fonte di ogni poesia.Per una larga parte del mondo
scientifico, le risorse specifiche dell’agricoltura e del mondo rurale
sono, in definitiva, sempre più considerate leve utili per potenziare e
qualificare i percorsi di inclusione non soltanto dei disabili mentali, ma
anche di una sempre più larga varietà di soggetti deboli.
P
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