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IL RUOLO DELLA FAMIGLIA PER L’INTEGRAZIONE DELLE PERSONE CON DISABILITA’

Dott.ssa Daniela Di Nino

L’ organizzazione pratica della famiglia, i suoi ritmi e le sue abitudini stanno mutando in modo assolutamente radicale. A questo proposito il Professor Federico D’Agostino (docente di Sociologia della Famiglia nella nostra Facoltà) in un intervista svolta di recente, sostiene che la famiglia resta nonostante le difficoltà ed i cambiamenti, espressione di valori positivi: dal desiderio di paternità e maternità alla vitalità più sana. Del resto, a suo avviso, un nucleo familiare non nasce soltanto per ragioni materiali ma, anche e per fortuna, per bisogni di altra natura. Oggi è il contesto generale a non favorire la stabilità dei rapporti affettivi perchè sono cresciuti i bisogni, le esigenze, i consumi. Però tutto questo non necessariamente comporta la fragilità affettiva e familiare. Io mi sono laureata in Scienze dell’Educazione nell’Università Roma Tre, ho 42 anni e da 21 sono malata di S.M. La mia famiglia è stata il sostegno più importante nella mia vita. Sono loro che hanno avuto la funzione di collegamento per la mia integrazione nella società. I loro valori e il loro affetto mi hanno accompagnato e dato la forza per andare avanti nello studio ed affrontare tutti i problemi che si presentano giorno per giorno. Insieme siamo riusciti a trovare l’equilibrio dopo lo shock ricevuto con la diagnosi. Abbiamo trovato in ognuno di noi i punti di forza recuperando la nostra integrazione nella società. Puntualizzo nostra integrazioneperché considero che anche i miei genitori hanno dovuto subire un processo di integrazione in seguito all’adattamento al nuovo modo di vivere. Di seguito espongo, secondo i diversi teorici, il ruolo della famiglia per l’integrazione delle persone con disabilità. La nascita di un bambino disabile o l’evento della malattia durante il corso della vita, cambia radicalmente l’equilibrio che esiste all’interno del nucleo familiare e pone problemi complessi e sconosciuti ai genitori che affrontano la situazione. Il senso di fallimento vissuto dalla coppia determina ansia e insicurezza, che si riflettono nei rapporti interpersonali, e sugli altri membri della famiglia. I genitori di fronte a un’iniziale fase di shock dovuta all’impatto della diagnosi e a situazioni stressanti legate alla disabilità del figlio, prevalentemente utilizzano strategie positive come la ricerca di supporto sociale e l’accettazione di responsabilità, piuttosto che prendere le distanze o evitare di affrontare i problemi. Dopo lo shock con la difficile situazione, la famiglia può diventare risorsa per il proprio figlio, attraverso una nuova fase che prevede lo spostamento del significato della crisi da perdita irreparabile a rottura di una condizione di equilibrio, che è contemporaneamente punto di partenza per un evoluzione adattiva. L’avvento di un figlio disabile può essere occasione di crescita e gioia per tutta la famiglia, se lo stile con cui si affronta questa nuova esperienza è diverso. Il ruolo della famiglia è infatti fondamentale nei molteplici aspetti della vita di una persona con disabilità: dall'assistenza e l’ aiuto in caso di bisogno, fino all’aumento del  livello di socializzazione. È necessario che i genitori abbiano gli elementi che permettano loro di capire il figlio disabile, di rendersi conto dei suoi bisogni e di immaginarsi il futuro senza troppe ansie e incertezze.

È utile proporre una forma di counseling per i genitori, forse il compito principale del counseling alla nascita è proprio permettere che inizino a porsi le basi per questo reinvestimento nel bambino nuovo, affinché venga superata la condizione di vuoto, di annullamento di tutti i sentimenti e di tutti i significati del loro passato, del presente e del futuro, che spesso si riscontrano in queste famiglie. Il punto di vista dei familiari influenzerà l’interpretazione degli eventi messi in relazione con la disabilità, la ricerca di aiuto e l’approccio alla cura. Alcuni ricercatori hanno descritto questo processo come una ricerca di significato, altri ne hanno parlato come di uno spiegarsi dell’evento o anche di un account-making (decidere il da farsi), mentre altri ancora hanno enfatizzato l’importanza di accettare l’evento a livello cognitivo e razionale.

I genitori debbono poter sperimentare le risorse che hanno a disposizione, i deserti della propria geografia emotiva, ma anche la fecondità dei propri punti di forza. Vengono dunque analizzati i bisogni dei genitori che trasformano il loro stile di vita in seguito alla scoperta della disabilità. L’azione educativa dei genitori è fondamentale nell’assicurare uno sviluppo cognitivo e armonico al figlio che vive una condizione di disabilità. La famiglia che vive una situazione di disabilità, col tempo si adatta alla situazione e riesce a gestirla, fino a produrre effetti positivi. Si tende in questo modo a dare sempre più credito alle risorse presenti all’interno della famiglia per fronteggiare le difficoltà e alle modalità con cui la famiglia attiva queste sue risorse. Anche i genitori con un  figlio disabile hanno dei loro bisogni, ad esempio: superare la diagnosi, avere servizi di accompagnamento, di auto mutuo aiuto e che siano rispettati i propri diritti. Nella vita del figlio disabile è necessario accettare e dare valore alle sue esperienze emotive e quando sorge un problema, bisogna essere disponibile per ascoltare con empatia e senza voler giudicare. Queste  precauzioni semplici, formano la base di un sostegno emotivo tra genitori e figli destinato a durare per tutta la vita. Gottman  puntualizza una parte del comportamento del genitore di fronte al figlio in cinque punti: il genitore diventa consapevole dell’emozione del figlio disabile; riconosce in quell’emozione un’opportunità di intimità e di insegnamento; ascolta con empatia e convalida i sentimenti del figlio disabile; aiuta il figlio disabile a trovare le parole per definire le emozioni che sta provando; pone dei limiti, mentre esplora le strategie per risolvere il problema in questione[1].

Saper riconoscere i punti di forza anche nelle famiglie maggiormente in difficoltà e aiutarle a mettere in campo le proprie risorse, sembrano competenze professionali importanti e imprescindibili per chi ha a che fare con persone disabili. Qualsiasi nucleo familiare, nel corso della sua evoluzione, si trova ad affrontare eventi e compiti che richiedono un più o meno vasto processo di riorganizzazione. Le famiglie differiscono tra loro per le modalità con cui fronteggiano tali compiti evolutivi e anche il singolo nucleo, in questo percorso, non rimane uguale a se stesso[2]. Dario Ianes[3] sostiene che non esiste un adattamento assoluto, totale e stabile, quindi si può parlare di un adattamento parziale e relativo: la famiglia “adattata positivamente” è la famiglia che riesce a soddisfare in modo sufficiente i bisogni dei suoi membri.

E’ necessario comprendere anche quali siano le risorse considerate  ‘punti di forza’ per un adattamento positivo della famiglia. Le risorse positive vengono classificate in risorse esterne -cioè risorse oggettive e materiali- e risorse interne -ossia intrapsichiche, cognitive ed emozionali, facenti quindi parte della persona-. Tra le più importanti risorse esterne vengono indicate: il livello di benessere e quello economico; l’evoluzione positiva della disabilità; la disponibilità di cure e terapie efficaci; la disponibilità di una rete informale di supporto. Tra le risorse interne, troviamo di fondamentale importanza: il grado di sensibilità dei genitori verso questa problematica;la qualità della relazione tra coniugi;il livello di cultura dei genitori;il livello delle abilità comunicative tra i membri della famiglia. Patterson e Garwick[4] affermano che ci sono tre livelli di significato importanti da prendere in considerazione quando le famiglie sono costrette a riadattarsi a seguito di una situazione stressante, sia essa l’evento disabilità o altro:

  • Significati situazionali: corrispondono al modo in cui i membri della famiglia parlano tra loro delle condizioni stressanti.

  • Identità familiare: fa riferimento a come le famiglie vedono se stesse.

  • Il punto di vista familiare sul mondo: significa considerare l’orientamento che i membri del nucleo hanno rispetto alla realtà esterna; come essi la interpretano, qual è il  fondamento delle loro assunzioni rispetto all’ambiente, quali sono le loro credenze sull’esistenza, quali sono gli obiettivi della famiglia nella vita.

Vi è chi stabilisce un più  stretto rapporto tra gestione familiare di un figlio handicappato ed esperienza di lutto vera e propria. In particolare, Calandra e collaboratori[5] sostengono che le famiglie con un membro handicappato attraversano le stesse fasi descritte da Kubler-Ross con riferimento alla elaborazione del lutto, e che sono: rifiuto ed isolamento, rabbia, approccio al problema, depressione, accettazione. 

In Italia e all’estero attualmente si stanno affermando diversi approcci teorici e metodologici che hanno già dimostrato notevole efficacia sul piano pratico, ad esempio le tecniche cognitivo-comportamentali, la teoria razionale emotiva di Ellis[6] e l’approccio sistemico relazionale (un esempio è l’organizzazione di un servizio di Consulenza Familiare in un equipe Socio-Sanitaria pluridisciplinare che si occupa di persone con disabilità e delle loro famiglie a Milano[7]).

L’isolamento sociale è uno dei principali rischi per le persone disabili e i loro familiari. La disabilità di un figlio può essere occasione per incontrare persone che si trovano nella stessa situazione, creando rapporti importanti proprio perché basati sulla condivisione di problemi simili. In Italia si stanno sviluppando gruppi di auto-mutuo-aiuto in istituzioni come il Centro Italiano Sviluppo Psicologia (CISP) di Roma[8] (www.psicoterapie.org) e anche forum virtuali per mezzo dei quali le persone disabili e i loro familiari possono condividere le loro esperienze. L’Università di Roma Tre, attraverso il Servizio di Tutorato, aiuta agli studenti disabili ad integrarsi nella vita universitaria, orienta ai loro familiari ed offre il servizio di “counseling”.   


[1] J. Gottman - J. Declaire, Intelligenza emotiva per un figlio,  Rizzoli, Milano, 2001.

[2]M. Zanobini, M. Manetti, M.C. Ussai,  La famiglia di fronte al problema dell’handicap. In O. Cellentani (a cura di), Lavorare con la famiglia. Manuale ad uso degli operatori dei servizi sociali. Angeli, Milano, 1998, pp. 282-306.

[3] D. Ianes in : (a cura di) M. Tortello - M. Pavone., Pedagogia dei genitori. Handicap e famiglia. Educare alle autonomie. Paravia, Torino, 1999, cit., p.160.

[4] Patterson e Garwick, Levels of family meaning in family stress theory, “Family Process”, vol. 33, pp. 287-304, 1994-b.

[5] C. Calandra, G. Finocchiaro, L. Raciti, A. Alberti, Grief elaboration in families with handicapped member. “Ann. Ist. Super. Sanità” vol. 28, pp. 269-272, 1992  

[6] L.  Marin, Terapia Razionale Emotiva. “Rivista telematica Centro Italiano Sviluppo Psicologia”, vol. 1 pp.1-9. www.psicoterapie.org , 2006.

[7] D. Grezzi, Consulenza familiare e handicap: le ragioni di un servizio. “Rivista interdisciplinare di ricerca ed intervento relazionale” num. 32, pp. 41-60, 1990.

[8] L. Marin, Gruppi di auto mutuo aiuto. www.psicoterapie.org, 2006

 

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