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LA GAIA PSICOTERAPIA

 CESARE  DE SILVESTRI

 

Si, d'accordo, ho imitato un titolo di Nietzsche (Die frohliche Wissenschaft,1882), ma la critica più pertinente che potrebbe essermi rivolta è quella di aver chiamato "gaia" un'attività, un lavoro, un mestiere che affronta e cerca di lenire disagi, sofferenze e angosce psicologiche (talvolta non solo psicologiche ) degli esseri umani. Specialmente la nostra RET (REBT) che, per unanime e documentato riconoscimento (vedi il piccolo florilegio degli endorsament), è forse l'unica che si azzarda ad avventurarsi nella gestione di situazioni estreme della sofferenza, come ad esempio le malattie somatiche croniche e gli stati terminali, di fronte alle quali la maggio parte delle altre psicoterapie arretrano impotenti. Giusto. In certe situazione c'è poco da ridere.

Però, però...

Tanto per cominciare, l'uso dell'umorismo non è vietato da nessun codice deontologico. Semmai non viene nemmeno in mente a chi è privo di un minimo senso dell'humour e lavora in modo freddo, serioso, severo e arcigno. Sarà forse convinto che questo sia il corretto atteggiamento "professionale", ma c'è da domandarsi che fine faccia il suo rapporto umano con i pazienti. In secondo luogo, la RET offre ai pazienti non solo le sue Canzoni Razionali che prendono allegramento in giro alcune delle idee disfunzionali codificate da Ellis, ma insegna ai terapeuti un atteggiamento piuttosto informale, sereno e rilassato, dove c'è posto per la battuta di spirito, l'eagerazione grottesca e la provocazione - naturalmente mai a carico del paziente ma soltanto contro l'irragionevolezza controproducente delle sue idee. E dopo averlo insegnato ai terapeuti, la RET insegna anche ai pazienti come non prendersi troppo sul serio e come sviluppare un atteggiamento piuttosto ironico e divertito verso la vita e le sue traversie. 

Ma come mai si usa l'umorismo?

Già, come mai sembra utile usarlo? Perché, vedete, è proprio vero. L'umorismo si dimostra molto efficace nel ridimensionare e talvolta superare molti problemi. Non lo dice soltanto la RET con le sue brave pezze d'appoggio (cioè, come si usa ora dire, con le sue validazioni empiriche), ma lo sostengono anche altre psicoterapie, altri autori, filosofi e scrittori. Persino a livello popolare, tutti sanno che "il riso fa buon sangue". 

E perché funziona?

Ecco, qui la risposta si fa più complicata. Andiamo con ordine. L'umorismo si può definire come un certo tipo di stimolo che provoca il riflesso del riso cioè la reazione motoria di ben quindici muscoli facciali e di quelli della respirazione . Un semplice riflesso quindi? Colpisce tuttavia la differenza fra la natura dello stimolo e quello della risposta. Se fra tutti i riflessi che conosciamo, ne prendiamo ad esempio qualcuno come quello patellare, vediamo che tutto avviene ad un solo primitivo livello fisiologico di semplice arco riflesso, senza bisogno di alcun intervento delle funzioni mentali superiori. Nel riso si tratta invece del fatto che una complessa attività mentale come udire o leggere e capire una battuta spiritosa provoca una specifica e stereotipata contrazione riflessa dei muscoli facciali e non solo. E' vero che anche il solletico fa ridere persino i bambini piccoli, e in questo caso il riflesso del riso condivide con gli altri riflessi motori la caratteristica di essere "unlearned" , cioè non appreso. Ma per capire una battuta umoristica ci vuole invece un certo grado di apprendimento se non di vera e propria raffinatezza intellettuale. E c'è da aggiungere che mentre altri riflessi motori (quello pupillare, tanto per fare una altro esempio) hanno una chiara funzione difensiva, protettiva, adattiva et similia, quello del riso non sembra avere alcuno scopo biologico né alcun valore utilitaristico. 

Ma allora a che serve?

Resta infatti da spiegarsi quale sarebbe la funzione del riso. Ammesso che si tratti di un riflesso, saremmo di fronte all'unico riflesso che, a differenza degli altri che conosciamo, non sembra aver nulla a che fare con l'evoluzione e la lotta per la sopravvivenza. Si potrebbe quasi definire una cosa superflua. Più o meno, fatte le debite distinzioni, come l'appendice cecale del nostro intestino crasso. Ovvero, se vogliamo trovarci un motivo di auto-compiacimento, potremmo riguardarlo come una specie di lusso - un privilegio esclusivo degli esseri umani rispetto agli altri animali. Forse invece una spiegazione possiamo trovarla. Ci avevano già provato gli antichi greci. Lo stesso Platone era rimasto perplesso di fronte a questo strano fenomeno. Anche Aristotele. E poi Cicerone, Descartes, Francis Bacon, Thomas Hobbes, Immanuel Kant, Herbert Spencer, Sigmund Freud, Charles Darwin, Henri Bergson, Aldous Huxley, e un diluvio di filosofi, scrittori, etologi, antropologi culturali e psicologi più recenti. E chissà quanti altri - famosi e no. Esistono biblioteche intere sull'argomento. Il campo sembra buono per una ricerca o una "tesina" un po' meno noiosa delle solite, se avete voglia di farla.

E che cosa c'entra la psicoterapia?

Be', vedete, fra le tante ipotesi avanzate, alcune di esse attribuiscono al riso la funzione e l'effetto di alleviare la tensione e il disagio - non solo nelle comunicazioni e nei rapporti interpersonali ma anche in certe transazioni intrapsichiche, come il dialogo interno, il conflitto di convinzioni, le contraddizioni logiche, le dissonanze cognitive e cognitivo -affettivo, eccetera. Non vi pare che sia proprio questo uno degli scopi del nostro mestiere? Quindi una spiegazione abbastanza plausibile sulla possibile utilità di questo riflesso avrebbe appunto a che fare con la psicoterapia. E allora non sembri poi tanto strano il titolo di queste due paginette, né l'aver parlato d'umorismo in un simile contesto. Anzi, forse vale la pena di parlarne ancora. Ci sono altri aspetti interessanti da tener presenti o almeno accennare. A risentirci. Presto.

 

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