APPUNTI DI PSICOTERAPIA
CESARE DE SILVESTRI
Esercito da molti anni in Italia e fuori il mio lavoro di clinico e di didatta. Ho raccolto il frutto di queste mie esperienze in un paio di libri di testo, e ne sto scrivendo un terzo. Qui vorrei però offrire una breve riflessione su un aspetto della psicoterapia che pratico e cerco d'insegnare ai miei allievi. Un aspetto che considero fondamentale in questo mestiere difficile, dedicato e gravido di responsabilità - talvolta di portata vitale. Se il tempo e le energie mi basteranno, un giorno forse scriverò più estesamente sugli aspetti clinici di questo straordinario fenomeno d'incontro e specialissimo confronto fra due esseri umani. Ma oggi voglio parlare dell'altro aspetto, quello didattico, della mia esperienza. Che cosa vuoi fare da grande ? Per quanto infatti riguarda la didattica, si tratta anche qui di un particolarissimo incontro - confronto - dove in primissimo piano e prima di qualsiasi altra cosa c'è di nuovo il rapporto umano tra me ed ogni mio singolo allievo. Ed allora spiegherò come cerco d'inquadrare l'insegnamento pratico di un mestiere dell'ambito di questo rapporto. Perché, vedete, uno dei primi equivoci che mi sforzo di chiarire ai miei allievi è quello secondo il quale basterebbe imparare qualche tecnica per divenire psicoterapeuti. Strategie, procedure e tecniche sono naturalmente importanti, specie in quella che pratico, la RET (ora REBT), che è una delle più strutturate, probabilmente la più strutturate di tutte le modalità d'intervento psicologico - tranne forse il behaviourismo ortodosso di vecchia maniera. Ma se un operatore dell'igiene mentale si limita ad imparare qualche tecnica, o molte tecniche, o tutte quelle che riesce ad imparare, forse diventerà efficace, e persino molto efficace per quanto riguarda la loro meccanica applicazione. E forse avrà anche dei buoni risultati. A mio modo di vedere, però, resterà soltanto un bravo tecnico che sa usare automaticamente i suoi arnesi di lavoro. Gli mancherà, cioè, il senso e la sostanza più importante di questo lavoro: il rapporto umano con il paziente, il rapporto della sua umanità con quella del paziente, la comunicazione, il dialogo, il colloquio, lo scambio fra queste due umanità. Purtroppo, però, alcuni di noi scimmiottano i baroni accademici e si trincerano dietro una gelida riservatezza, presentandosi in modo distante e asettico, (quindi sterile), rigidamente controllato (quindi privo di ogni spontanea umanità), fondamentalmente falso (quindi, secondo me, antidattico e - se usato anche con i pazienti - pericolosamente antiterapeutico). Psiche e conoscenza Perché "psicoterapia" non significa, come alcuni incompetenti possono credere, "cura della psiche"- tanto è vero che qualche sprovveduto ci chiama persino "headshrinker" o "strizzacervelli". Al contrario, nel senso proprio di quasi tutte la altre terapie anche mediche, come ad esempio "idroterapia", "radioterapia", eccetera, significa "cura mediante la psiche"- quella del terapeuta o del didatta che comunica con quella del paziente o del trainee. In realtà anche questa è un'immagine riduttiva di quanto accade in un rapporto psicoterapeutico. Parlare di "psiche" suggerisce l'idea che la relazione avvenga fra la mente, l'intelletto, l'attività mentale delle due persone. Il che è vero, ed è importante. Specie nelle psicoterapie che si definiscono "cognitive", e dove lo scopo dichiarato dell'intervento o del training è appunto quello di aiutare il paziente o il trainee a modificare, auspicabilmente in modo più utile a lui, il suo modo di "conoscere" se stesso, gli altri e le cosa del mondo, ("cognitivo" deriva dal verbo latino cognoscere, che segnifica appunto conoscere). Ma conoscere le cose significa anche capirle, interpretarle e valutarle. E quindi "sentirle" e "motivarsi" in proposito. Scusate l'insistenza pedante, ma "motivazione" deriva da un altro verbo latino, movère, attraverso il suo participio passato motus, che ha a che fare con il movimento, l'azione, il comportamento. Le stesse considerazione valgono quindi per le psicoterapie "cognitivo - comportamentali" che si occupano dichiaratamente anche di questo secondo aspetto. Ed a maggio ragione vale per la mia, che si definisce una psicoterapia "cognitivo -emotivo -comportamentale" e si prende cura anche dell'aspetto emotivo o motivazionale - cioè, dell'atteggiamento, della tendenza, del desiderio, della speranza, verso uno scopo. Le scimmie ammaestrate - Trained Monkeys In altre parole,cerco di far capire ai miei allevi come sia opportuno che uno psicoterapeuta si prenda carico non solo di tutti gli aspetti di problema presentato del paziente, ma anche della sua sofferenza e della sua sostanza umana, impegnando la propria sostanza umana in una specie di comprensione e vicinanza che non sconfini però mai in una partecipazione - identificazione con il disagio del paziente. No, non sto parlando di quella che viene chiamata "empatia" (ne ho scritto a lungo altrove per accettarne soltanto il senso che ne dà la mia scuola ), tantomeno di "solidarietà" con le sue sbavature mistico - religioso che ha in questo paese. Sto parlando di una simpatia di una compassione che, nonostante i prefissi "sim" e "com", sono termini che non vanno interpretati come "immedesimazione", ma tenuti invece fermi ad un atteggiamento di comprensione e sollecitudine attiva. Non tanto e non solo verso gli elementi teorico-tecnici del problema specifico del paziente, non solo verso le sue difficoltà e sofferenze psicologiche (ansia, depressione, ostilità, colpa), ma anche verso il disagio della sua condizione di essere umano in mezzo agli altri esseri umani. E se uno psicoterapeuta trascura questo aspetto e si limita ad applicare sia pure le migliore procedure e modalità d'intervento, allora, sempre a mio modo di vedere, somiglia piuttosto a una specie di scimmia ammaestrata. A voler essere più polemici ancora, si potrebbe paragonare a una specie di robot preprogrammato. E ammesso pure che sia anche carico di dottrina, ricerche, elaborazioni teoriche e quant'altro, potremmo definirlo una specie Learned Monkey o scimmia sapiente. La scimmia umana - The Human Ape Perché, vedete, si tratta di qualcosa che va ben oltre il rapporto professionale, sia pure il più teroricamente e deontologicamente corretto. Si tratta piuttosto di una comunicazione diretta della nostra realtà con la realtà del paziente. Una realtà che parte dall'elementare consapevolezza del nostro corpo e della nostra percezione della presenza fisica dell'altro svilupparsi in un'aperta relazione fra queste due entità. Una relazione, una corrispondenza essenzialmente dialogica fra me e lui, fra la mia interezza come persona umana e l'interezza, la pienezza di ciò che ho di fronte - un'altra persona umana. Una presenza, appunto, un "soggetto" e non un semplice "oggetto" della mia neutrale, distaccata, scientifica attenzione. Non inganni l'uso del termine "interezza". Non si tratta della impossibile conoscenza reciproca di tutti i nostri aspetti. In realtà non posso conoscere neanche tutti i miei aspetti - tantomeno tutti quelli dell'altro. Ma posso esser presente nel "qui ed ora" con tutto me stesso, le mie esperienze, ricordate o dimenticate, i miei errori e i miei successi, i miei dolori e le mie sofferenze, le cose che ho amato e quelle che ho odiato, quelle che ho trovato, quelle che ho perduto,quelle che ho costruito e quelle che ho distrutto in me stesso e nelle mie relazioni con gli altri. Ed ora in questa relazione con "lui" o con "lei", con "l'altro", dove tutto viene a capo, in modo consapevole o inconsapevole, ma concreto, reale, vero e presente, sebbene in parte inconoscibile. Si tratta quindi della consapevolezza di essere e di avere di fronte un qualcosa di estremamente complesso e multiforme, in parte nascosto, in parte misterioso, in parte ignoto anche a me stesso e a l'altro. E si tratta della disposizione ad accettare queste limitazioni per lasciare libero gioco al confronto, allo scambio, alla relazione anche delle parti ignote dell'altro.Ma una tale relazione richiede, impone che io mi apra a ciò che è diverso, a ciò che è "altro" da me. Richiede e sollecita da parte mia un'accessibilità, una permeabilità, una disponibilità verso di lui, e contemporaneamente un'inclinazione ad entrare in lui, a coinvolgermi nel suo disagio e ad impegnarmi per lui. Se manca questo, può subentrare allora il distacco, il rifiuto ad aprirsi, ad impegnarsi, ad avere e dare fiducia e speranza. Si può correre il rischio della negazione, dello scoraggiamento, della disperazione, della rinuncia, dell'abbandono e dell'assenza. Una possibilità da tenere sempre presente in questo lavoro, come in qualsiasi lavoro che ci metta a confronto con gli altri, perché rappresenta un'essenziale caratteristica della nostra condizione umana in mezzo agli altri esseri umani. Anche nella vita quotidiana, nei nostri rapporti quotidiani, infatti, possiamo affermare oppure negare la nostra interezza, il nostro corpo e la nostra presenza, e quindi soddisfare oppure frustrare la nostra naturale tendenza ad esistere ed essere.
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