I
gruppi di autoaiuto: una ricerca sul territorio nella realtà napoletana
Pasqualina
Casillo
Il
seguente articolo rappresenta una sintesi di una ricerca svolta nel 2003,
sul territorio napoletano sulla realtà dell’autoaiuto.
Gli
obiettivi della ricerca erano:
1.
costruire una mappatura dei gruppi di autoaiuto esistenti nella città di
Napoli;
2.
conoscere le caratteristiche proprie di ogni gruppo;
3.
raccogliere informazioni riguardo il vissuto personale nel gruppo,
del partecipante e del facilitatore e sulla formazione di quest’ultimo;
4.
trovare i fattori percepiti come maggiormente efficaci per il
funzionamento del gruppo di autoaiuto.
I
gruppi trovati sono stati 18 e
affrontavano diversi disagi: 12 legati al problema delle dipendenze (4
Alcolisti Anonimi, 4 alanon, 1 cat, 1 Narcotici Anonimi, 1 per fumatori, 1
Comunità Emmanuel per genitori di tossicodipendenti); 3 gruppi per ansia
e attacchi di panico (2 lidap, 1 solidap); 2 gruppi per adolescenti e 1
per donne operate al seno.
Il
campione è composto da un
totale di 146 soggetti e suddiviso in 18 facilitatori e 128 partecipanti.
I facilitatori, in prevalenza donne (66.7%), di età compresa tra i
31 e 68 anni, residenti nel sud, con livello di istruzione medio-alto (il
72.2% ha conseguito almeno il diploma) e tempo di appartenenza al gruppo
che va da meno di un anno a 18 anni.
I
partecipanti, per lo più di sesso femminile (54.7%), di età compresa
tra gli 11 e 75 anni, nati in prevalenza nel sud (95.3%) e residenti nel
meridione, con livello di istruzione medio-alto (il 60.9% ha conseguito
almeno il diploma) e tempo di appartenenza al gruppo che va da 1 anno a 25
anni.
Secondo
la definizione di Katz e Bender (1976), sono sei le caratteristiche
principale che definiscono un gruppo di autoaiuto: l’interazione faccia
a faccia dei membri, le origini spontanee dei gruppi, la partecipazione
personale, i membri esprimono condivisione e si impegnano in particolari
azioni, il gruppo parte sempre da una condizione di difficoltà condivisa
da tutti i membri, i gruppi diventano gruppi di riferimento, di
connessione e identificazione con altri.
Il 50% delle realtà individuate sono stati costituiti dopo
il 2000, quasi tutti nati come gruppi di autoaiuto (88.9%), inseriti in
un’organizzazione più ampia (88.9% dei casi) che ha come scopo il
recupero da dipendenza (11 gruppi) e prevenzione, informazione e
assistenza (4 gruppi).
Tra
i loro obiettivi troviamo il “miglioramento dello stile di vita”
(88.9%) e il “confronto” tra persone con lo stesso disagio (11.1%).
I problemi che hanno spinto le persone a frequentare il gruppo sono stati
legati dalla dipendenza di una sostanza (61.1%), ansia e attacchi di
panico (16.7%), problemi relazionali (16.7%) e accettazione di una nuova
condizione di vita (5.6%). Le soluzioni attuate prima dell’ingresso al
gruppo di autoaiuto per risolvere i problemi, erano in prevalenza, il
cercare di risolvere da solo e a volte con la famiglia il problema (38.5%)
e rivolgersi a medici, i quali spesso prescrivevano alla persona una
terapia farmacologica (34.6%).
In 12 gruppi è presente un programma di aiuto per il raggiungimento degli
obiettivi: la maggior parte dei gruppi segue i “dodici passi” (70%).
Nel 66.7% dei casi ci siamo trovati di fronte a un piccolo gruppo, 5-10
persone. Tutti i gruppi erano chiusi e a prevalenza continuativi, cioè il
gruppo non aveva termine, si riunivano una o più volte a settimana per un
ora e mezza o due, infine l’83.3% di essi si autofinanzia.
Un altro obiettivo è stato quello di raccogliere informazioni sulla
formazione del facilitatore e i suoi vissuti personali nel gruppo. Si è
visto che il 77.8%, non viene retribuito per l’attività svolta presso
il gruppo. Il facilitatore può avere ruoli diversi che vanno dal
conduttore al facilitatore della comunicazione e dal rappresentante al
segretario. Inoltre può essere chiamato in maniera diversa: conduttore,
facilitatore o servitore.
Nel 72.2% dei casi condivide lo stesso problema dei partecipanti, in
quanto è un membro anziano del gruppo; otto soggetti su diciotto si è
formato attraverso corsi di formazione
post-laurea o proposti dall’ente di appartenenza. Il 44.4% dei
facilitatori ha avviato il gruppo in prevalenza per aiutare gli altri ad
affrontare il problema (81.8%).
Nel 33.3% dei casi il ruolo del facilitatore è fisso e solo in un caso il
congedarsi dal gruppo rientra tra gli obiettivi.
Tutti sentono di avere condiviso momenti di emozione con il gruppo, nella
maggior parte si è identificato nei problemi esposti dai partecipanti e
nel modo di risolverli. Mentre aiutava sentiva di aver appreso cose su di
se e questo gli è stato di sostegno e aiuto, attivando processi di
cambiamento in se stesso e nel modo di rapportarsi con gli altri,
osservando cambiamenti nell’autostima, nella crescita personale,
nell’accettazione del diverso e nel rapporto con gli altri.
Secondo gli intervistati, il gruppo dovrebbe far sentire al nuovo venuto
comprensione, amore e accoglienza, questo avviene naturalmente
raccontandosi e ascoltando l’altro dandogli sostegno.
Il successivo obiettivo, era quello di raccogliere informazioni sui
partecipanti riguardo il vissuto presonale nel gruppo.
Dalle interviste somministrate è emerso che il 38.9% dei soggetti è
arrivato al gruppo su segnalazione di un professionista e il 33.3% è
stato inviato da un familiare o amico. Le aspettative erano quelle di
trovare aiuto e sostegno (50%), ma c’era anche chi non ne aveva (38.9%).Ciò
che invece hanno trovato è stato accoglienza e sostegno (72.2%),
motivazione e stimoli (16.7%). Tutti i soggetti pensano che i gruppi di
autoaiuto sono efficaci, ognuno ha tratto beneficio nell’aiutare altri
membri o nell’essere aiutato. Le persone vivono il gruppo come una cosa
preziosa, cara per la propria vita. Molti infatti hanno dichiarato di
volerlo frequentare per sempre. Spesso mi è stato raccontato che, da
quando sono entrati nel gruppo, la loro vita è cambiata, “sono
rinato” o altre volte ancora “devo la mia vita al gruppo, prima volevo
morire, il gruppo mi ha restituito la voglia di vivere”. Inoltre lo si
percepisce come una famiglia e spesso c’è chi la considera l’unica
che ha.
I cambiamenti percepiti sono stati nei riguardi di se stesso (55.6%) o
verso gli altri (11.1%).
Nel 72.2% dei casi, esiste un leader
a cui fare riferimento durante gli interventi, di questi il 53.8% ha un
ruolo fisso.
Quarto e ultimo obiettivo della ricerca, è stato quello di individuare i
fattori di efficacia per la riuscita del gruppo, somministrando la scala
dei fattori di efficacia messa a punto e validata, dalla prof. Francescato
e dalla Cattedra di Psicologia di Comunità
e costruita in riferimento alla letteratura sull’argomento (Francescato,
Putton, 1995; Skovholt, 1974; Katz e Bender, 1976; Gartner e Riessman,
1984; Folgheraiter, 1990; Lieberman, 1979; Maguire, 1987; Noventa, 1996;
Noventa, Nava e Oliva, 1990).
I fattori individuano le seguenti caratteristiche distintive dei gruppi di
autoaiuto: modellamento, sostegno affettivo ed informativo, condivisione,
senso d’appartenenza, helper therapy,
strategie di fronteggiamento (controllo del comportamento), ripristino
della rete, responsabilità.
Dall’elaborazione dell’analisi delle frequenze è emerso che, per il
facilitatore, gli item che individuano i fattori percepiti come i più
efficaci, per il buon funzionamento dei gruppi di autoaiuto, sono
risultati: “l’identificazione (l’essersi sentiti simili) con
persone che avevano lo stesso problema ed erano riusciti a migliorare”
e “aver contribuito responsabilmente al funzionamento del gruppo”,
entrambi con una percentuale del 72.2% e il fattore “rendersi conto
di non essere solo ad avere quel problema” (61.1%).
Per quanto riguarda i partecipanti, essi hanno dato la preferenza ai
seguenti fattori: “rendersi conto di non essere solo ad avere quel
problema” (54.7%), “sentirsi accettato e parte di un gruppo”
(52.3%), “l’identificazione (l’essersi sentiti simili) con
persone che avevano lo stesso problema ed erano riusciti a migliorare”
(48.5%).
Da ciò emerge che i primi tre item, sentiti come più efficaci sia al
facilitatore che al partecipante, sono tra loro simili, due sono in
comune.
I
18 item sono stati riuniti in 4 fattori (Francescato, Tomei, Foddis,
2002):
1.Responsabilizzazione
2.Identificazione-condivisione
3.Scambio
d’informazioni e consigli
4.Scambio
amicale
Tali
fattori sono stati messi in relazione con caratteristiche personali dei
soggetti: sesso, età, stato civile, livello di istruzione, tempo di
appartenenza al gruppo, essere facilitatore o partecipante.
L’analisi effettuata su queste variabili è stata
l’analisi della varianza (ANOVA a una via): assumendo come
variabile dipendente di volta in volta ognuno dei quattro fattori; e come
variabile indipendente le sei variabili personali dei soggetti.
L’elaborazione dell’ANOVA fa supporre i seguenti rapporti
significativi:
·
il “titolo di studio” dei soggetti influenzerebbe lo scambio amicale e
il senso di responsabilizzazione. Infatti si nota una differenza di medie
che aumenta con l’aumentare della cultura: i soggetti che hanno un
livello di istruzione pari alla scuola elementare, hanno la media più
bassa sia nei riguardi dello scambio amicale che della
responsabilizzazione, rispetto agli altri soggetti, la cui media aumenta,
con l’aumentare del livello di istruzione;
·
L’altra variabile, dove l’analisi della varianza è risultata
significativa, “tempo di appartenenza al gruppo” sembrerebbe avere una
influenza sul senso di identificazione-condivisione, scambio amicale e
responsabilizzazione. Infatti dalle medie è possibile notare che i
soggetti che partecipano da meno tempo alle riunioni di gruppo, hanno la
media più alta rispetto agli altri soggetti, la cui media diminuisce con
l’aumentare del tempo passato al gruppo.
I processi stimolati dall’efficacia dei gruppi di autoaiuto: il
principio dell’helper therapy, esperienze comuni dei membri, azione
orientata verso obiettivi esterni, informazione/educazione e i processi di
gruppo, tra cui il senso di appartenenza,socializzazione, facilitazione
nella comunicazione, (Katz, 1970; Lieberman,1979; Riessman, 1965), sono
tutti emersi sia tra i fattori di efficacia che dalle interviste. Secondo
la definizione del principio dell’helper-terapy enunciato da Riessman
(1965), esisterebbe una sorta di effetto boomerang per cui chi dà aiuto,
in realtà, ne riceve e chi cerca di modificare una persona, in realtà
modifica se stesso. L’effetto dell’helper-therapy è confermato dai
fattori di efficacia emersi dalle preferenze dei soggetti date agli items:
“aver contribuito responsabilmente al funzionamento del gruppo”, “il
sostegno affettivo dato e ricevuto” e “Essere stato di aiuto ad altre
persone nel gruppo”.
Conclusioni
I
risultati appena esposti portano ad importanti conclusioni, utili per
ulteriori approfondimenti:
Secondo
l’ultima indagine sulla diffusione dei sui gruppi di autoaiuto in
Italia, condotta dall’Istituto Devoto nel 1999, nel sud era presenti il
3% e in Campania solo gruppi per alcolisti. La presente indagine è
arrivata a risultati più incoraggianti.
Il
rafforzamento del pensiero che i gruppi di autoaiuto siano efficaci, così
come dimostrato dalla letteratura.
La
percezione dei partecipanti e dei facilitatori che i fattori maggiormente
incisivi nel far sentire il gruppo di autoaiuto efficace sono:
“l’identificazione (l’essersi sentiti simili) con persone che
avevano lo stesso problema ed erano riusciti a migliorare”, “aver
contribuito responsabilmente al funzionamento del gruppo”, “rendersi
conto di non essere solo ad avere quel problema” e
“sentirsi accettato e parte di un gruppo”, distribuiti equamente tra i
quattro fattori principali.
I
processi stimolati dall’efficacia di gruppi di autoaiuto: il principio
dell’helper therapy, esperienze comuni dei membri, azione orientata
verso obiettivi esterni, informazione/educazione e i processi di gruppo
tra cui il senso di appartenenza, socializzazione, facilitazione nella
comunicazione, (Katz, 1970; Lieberman,1979; Riessman, 1965), sono tutti
emersi sia tra i fattori di efficacia che dalle intervista.
P
S I C T V
La
Web Tv per la Psicologia e La Psicoterapia |
|