IL
MALTRATTAMENTO PSICOLOGICO DELLE DONNE NEL CONTESTO DI COPPIA
Giovanna Piagione
RIASSUNTO
Il
seguente lavoro focalizza l’attenzione sul maltrattamento psicologico
che è una particolare forma di maltrattamento in quanto, non presentando
effetti fisici evidenti, è difficilmente riconoscibile sia da parte di un
osservatore esterno sia da parte della vittima stessa (Tinelli, 2000;
Reale, 2000). Gli effetti psicologici di questo tipo di maltrattamento però
sono molteplici e rilevanti.
Questa modalità di maltrattamento si attua principalmente mediante la
comunicazione e le sue distorsioni operate nell’ambito di relazioni
caratterizzate per la continuità e per il legame affettivo come nella
coppia.
Nell’ambito della coppia queste modalità relazionali si inseriscono nel
processo di definizione dei ruoli a cui prendono parte anche le credenze
socialmente condivise circa le differenze di genere per quanto concerne i
ruoli assunti nella famiglia (Ardone, 1990; Fruggeri, 1998).
Nonostante questo tipo di maltrattamento possa essere perpetrato nei
confronti sia degli uomini che delle donne, queste ne risultano
particolarmente vulnerabili per le idee socialmente diffuse sul loro ruolo
all’interno della famiglia.
LA
COMUNICAZIONE NELLE RELAZIONI FAMILIARI
Secondo la prospettiva sistemica la famiglia non è la semplice somma dei
suoi membri, ma una unità in cui le parti assumono significato solo
rispetto al tutto e il tutto emerge dall’interscambio tra le parti.
Oggetto d’indagine diventano, pertanto, le relazioni fra le parti (Fruggeri,
1998).
Il mezzo con cui si compie e si manifesta la relazione è la comunicazione
intesa come comportamento (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967).
Riguardo la pragmatica della comunicazione umana, ossia quell’aspetto
della comunicazione che influenza il comportamento, Watzlawick, Beavin e
Jackson (1967) hanno individuato delle proprietà che definiscono assiomi.
Il primo assioma afferma che, poiché il comportamento nell’ambito di
una interazione costituisce comunicazione e poiché non è possibile non
avere un comportamento, non è possibile non comunicare.
Il secondo assioma afferma che una comunicazione è costituita dal
contenuto e dalla relazione. Il contenuto è l’informazione mentre la
relazione è una regola su come interpretare il contenuto che può essere
comunicata verbalmente, mediante il linguaggio non verbale e anche
mediante il contesto, e costituisce una metacomunicazione (Bateson, 1972).
Il terzo assioma afferma che il tipo di relazione è determinato anche
dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione. La punteggiatura
definisce delle regole per lo scambio comunicativo organizzando la
sequenza di comportamenti e conferendo dei ruoli ai partner della
comunicazione.
Il quarto assioma afferma che la comunicazione umana utilizza
contemporaneamente il modulo analogico e il modulo numerico. Il modulo
numerico consente di trasmettere il contenuto della comunicazione, mentre
il modulo analogico consente di trasmettere la relazione e consiste nella
comunicazione non verbale e nel contesto della comunicazione (Bateson,
1972).
Il quinto assioma, infine, afferma che tutti gli scambi comunicativi
possono essere o simmetrici o complementari. Questo assioma trae origine
dal concetto di schismogenesi di Bateson (1975) che corrisponde ad un
processo di cambiamento del comportamento individuale in seguito
all’interazione con altri individui. Quando la schismogenesi è
simmetrica la relazione è basata sull’ugualianza e il partner della
comunicazione tende a rispecchiare il comportamento dell’altro; quando
la schismogenesi è complementare la relazione è basata sulla differenza
e un partner assumerà la posizione superiore mentre l’altro quella
inferiore. I due partner però assumeranno i rispettivi ruoli in maniera
interdipendente e non sarà uno dei due a imporre questo tipo di relazione
all’altro.
La distorsione di questi assiomi può essere tale da comportare un
disturbo della comunicazione che distorce patologicamente, se il disturbo
si ripete quotidianamente, le interazioni reciproche (Fruggeri, 1998).
Disturbi
nella comunicazione
Secondo
Watzlawick, Beavin e Jackson (1967) le distorsioni della comunicazione
possono essere distinte per l’assioma interessato. Per quanto riguarda
il primo assioma una persona che in una situazione di interazione volesse
evitare la comunicazione potrebbe o rifiutarla, ma in questo modo
comunicherebbe comunque, o accettarla nonostante non voglia, o
squalificarla, rendendola incomprensibile, contraddittoria o incompleta, o
addurre una qualche causa incontrollabile che gli impedisce di comunicare
come un sintomo. Anche il sintomo costituisce una comunicazione non
verbale.
Per quanto riguarda il secondo assioma, secondo il quale la comunicazione
è composta da un contenuto e da una relazione, la sua distorsione può
generare un conflitto. Mentre un conflitto riguardante il contenuto è
facilmente risolvibile, un conflitto riguardante la relazione può
risultare più difficile perché i partner continuano a confrontarsi sul
livello di contenuto mentre dovrebbero farlo sul livello di relazione
attraverso la metacomunicazione.
Un aspetto molto importante del livello di relazione della comunicazione
è il suo riferirsi non solo alla definizione della relazione ma anche
alla definizione del soggetto comunicante. Quando un soggetto comunica al
livello della relazione comunica se stesso e il partner può rispondere a
questa comunicazione confermando tale definizione, accrescendo così la
consapevolezza del soggetto, rifiutandola e fornendogli la possibilità di
modificare tale definizione, o può disconfermarla. La disconferma
equivale alla negazione che il soggetto sia l’emittente di un messaggio,
alla negazione quindi dell’esistenza del soggetto che può portarlo alla
perdita del Sé. La disconferma del Sé è però possibile solo se è
presente una mancanza di consapevolezza delle percezioni interpersonali.
Per quanto riguarda il terzo assioma, se si verificano discrepanze sulla
punteggiatura della sequenza comunicativa si genera un conflitto che può
condurre ad attribuzioni reciproche di cattiveria e di follia; questo può
continuare all’infinito se non si giunge a metacomunicare per
comprendere l’effettiva natura del conflitto. Generalmente una
discrepanza della punteggiatura si verifica quando almeno uno dei due
interlocutori ignora di non avere lo stesso grado d’informazione
dell’altro. La discrepanza nella punteggiatura porta ad un conflitto
circa la causa e l’effetto degli eventi comunicativi.
Un errore nel quarto assioma consiste in un errore nella traduzione del
materiale analogico in numerico. Il linguaggio analogico è privo di
elementi quali la morfologia e la sintassi che invece caratterizzano il
linguaggio numerico, ed è contraddittorio in quanto si presta a
molteplici interpretazioni in linguaggio numerico. Pertanto la traduzione
di un messaggio dal linguaggio analogico a quello numerico diventa
difficile e può generare conflitti. Per poter operare una conversione tra
un messaggio analogico e uno numerico è possibile utilizzare un rituale
che simula il messaggio ma in modo stilizzato e ripetitivo rendendolo un
simbolo. Il simbolo infatti corrisponde alla rappresentazione in grandezza
reale (numerica) di qualcosa di astratto come la relazione (analogica). Se
si perde la capacità di metacomunicare con un metodo numerico, una
situazione di compromesso è rappresentata proprio dal simbolo (Bateson,
1972) e, per poter comunicare un concetto astratto come la relazione, il
simbolo può essere anche un sintomo come quelli di conversione.
Anche l’ultimo assioma può presentare delle disfunzioni legate alla
rigidità della complementarietà e della simmetria. In una relazione
simmetrica è sempre possibile il verificarsi di una competitività fra i
partner e la sua escalation. Mentre in una relazione simmetrica sana i
partner sono in grado di accettarsi e di confermare i rispettivi Sé, se
la relazione simmetrica raggiunge la rottura i partner tenderanno a
rifiutare il Sé dell’altro. Anche in una relazione complementare sana i
partner sono in grado di confermare i rispettivi Sé, ma se la
complementarietà è rigida, più che rifiutare, i partner tenderanno a
disconfermare il Sé dell’altro.
Secondo Watzlawick, Beavin e Jackson (1967) ciò che rende disfunzionale
una interazione non è la presenza di complementarità o simmetria, ma
l’assenza di flessibilità e alternanza di questi due stili comunicativi
che consentirebbe la loro stabilizzazione reciproca impedendone
l’irrigidimento.
Teoria sistemica e relazioni nel sistema famiglia
Prima
di passare all’analisi delle interazioni fra le parti che compongono il
sistema ‘famiglia’ è importante soffermarsi sui concetti fondamentali
della teoria sistemica.
Innanzitutto è importante definire cosa sia un sistema. Secondo Hall e
Fagen (1956) un sistema è un insieme di parti e di relazioni fra le parti
e i loro attributi. Pertanto in un sistema comunicativo le parti possono
essere gli individui e gli attributi che le identificano possono essere i
loro comportamenti. Ciò che è importante in questo sistema non sarà il
contenuto della comunicazione ma l’aspetto di relazione (Watzlawick,
Beavin, Jackson, 1967; Bateson, 1972).
I sistemi presi in esame sono viventi, o aperti, perché si evolvono
attraverso l’interazione col loro ambiente.
Il primo principio dei sistemi aperti è quello della totalità e ordine.
Secondo tale principio la totalità del sistema è qualcosa di più della
somma delle sue parti, pertanto ciascuna parte deve essere studiata
facendo riferimento al contesto di appartenenza e alle relazioni fra le
parti. Il secondo principio è la circolarità delle relazioni causali
secondo il quale le relazioni causa-effetto non sono lineari ma sono
complesse e circolari; pertanto non è possibile individuare il punto in
cui comincia l’interazione, è necessario osservare il sistema nella sua
complessità e tener presente che il punto in cui si comincia
l’osservazione delle relazioni causali è arbitrario (Watzlawick, Beavin,
Jackson, 1967; Marvin, Stewart, 1999).
Il risultato di una serie di cambiamenti del sistema sarà dato sia dalle
condizioni iniziali che dalla natura del processo e dai parametri del
sistema; pertanto condizioni iniziali diverse possono portare allo stesso
risultato e risultati diversi possono seguire alle stesse condizioni
iniziali secondo il principio dell’equifinalità (Watzlawick, Beavin,
Jackson, 1967). Il principio delle relazioni invarianti afferma che, per
la sopravvivenza di un sistema, sono necessari dei limiti alla sua
variabilità e alla variabilità delle sue relazioni con l’ambiente in
quanto devono rimanere costanti le sue variabili fondamentali. Il
principio dell’autoregolazione adattiva consente di far fronte ai
cambiamenti ambientali attraverso variazioni dei valori interni al sistema
che, una volta ristabilitesi le condizioni ambientali precedenti, grazie
ad un meccanismo di feedback negativi, tornano ad assumere i valori
precedenti. Il principio dell’auto-organizzazione adattiva invece
consente di far fronte a cambiamenti permanenti interni o esterni al
sistema mediante la sua riorganizzazione permanente attraverso feedback
positivi, pur salvaguardando le variabili necessarie alla sopravvivenza
del sistema stesso. Questo principio consente quindi al sistema di
evolversi e svilupparsi.
Infine il principio dei sottosistemi e confini sostiene che ogni sistema
fa parte di un sistema più ampio e comprende altri sottosistemi e che i
diversi sottosistemi sono definiti da confini costituiti da regole circa
il funzionamento interno del sistema e le relazioni fra sottosistemi.
Nella maggior parte dei sistemi biologici i confini non sono fissi così
ogni componente può appartenere a diversi sottosistemi contemporaneamente
o in momenti diversi sottostando alle diverse regole dei sistemi a cui
appartiene (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967;Marvin, Stewart, 1999).
I disturbi della comunicazione assumono maggior importanza per le
relazioni in corso, ossia per quelle relazioni di lunga durata, con una
storia, che hanno la stessa importanza per i partner. In questo tipo di
relazione c’è l’occasione che le modalità comunicative si ripetano e
i loro effetti risultino più marcati. Un esempio di sistema interattivo
è la famiglia.
Le relazioni si legano e ripetono a causa dei limiti che ne rendono
difficile la modificazione. I limiti sono imposti dalla comunicazione, dal
momento che ogni scambio di messaggio restringe il numero delle risposte
successive, e dal contesto in cui si verifica la comunicazione. Il
contesto è inteso sia come esterno che come contesto interpersonale.
Poiché a livello di relazione si possono riscontrare delle ridondanze
nella comunicazione indipendentemente dal contenuto, si può affermare che
queste costituiscano delle regole della comunicazione e della relazione.
Anche il sintomo psicopatologico si introduce in un meccanismo omeostatico
che mantenga l’equilibrio del sistema anche se disturbato. Il sintomo
per il principio di totalità sarà inserito nelle relazioni fra tutti i
membri del sistema che concorreranno al suo perpetuarsi (Watzlawick,
Beavin, Jackson, 1967).
La famiglia, mediante il principio di retroazione, affronterà le crisi
dovute alle modificazioni dell’ambiente e del sistema stesso. Le crisi
possono consentire al sistema di evolversi e passare alle tappe successive
del ciclo di vita; infatti alcuni eventi critici come la nascita di un
figlio, sono considerati normativi perché si presentano con una certa
regolarità nel ciclo di vita della famiglia. Ma anche gli eventi critici
paranormativi che risultano più sporadici e non facenti parte della
fisiologia, come un trasferimento, possono, a seconda del modo in cui
vengono affrontati, costituire una occasione di evoluzione per il sistema.
Indipendentemente dal tipo di crisi affrontata però, il modo in cui verrà
affrontata e le modificazioni che avverranno nel sistema potranno essere
diverse proprio per il principio dell’equifinalità. Pertanto anche un
sintomo psicopatologico potrà essere l’esito di una strategia messa in
atto per affrontare la crisi (Malagoli Togliatti, Lubraro Lavadera, 2002).
In presenza di crisi la famiglia tende a mantenere l’omeostasi senza
portare il sistema ad una evoluzione e in tal caso anche i feedback
negativi assumeranno un aspetto ridondante al punto tale da poter essere
definiti come regole del sistema. Sono proprio tali regole che concorrono
al mantenimento di una situazione patologica che costituisce uno stato di
equilibrio del sistema (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967).
I
ruoli nella famiglia
I
comportamenti interpersonali sono determinati dalle rappresentazioni che i
partner hanno della situazione interattiva. Tale interpretazione sarà
fatta in funzione di credenze derivanti dalle esperienze relazionali del
soggetto. In un sistema familiare le influenze e interdipendenze
reciproche, messe in atto durante la comunicazione fra i membri, portano
alla condivisione di credenze che definiscono ruoli e comportamenti dei
membri. Poiché la famiglia è anche parte di una comunità, condivide con
essa credenze che definiscono cosa sia accettabile o meno. Le credenze a
questi tre livelli di analisi si influenzano a vicenda attraverso le
relazioni (Fruggeri, 1998).
Dalle interazioni all’interno della famiglia emergono i miti familiari
che comprendono un insieme di credenze circa l’immagine che la famiglia
ha di se stessa e dei comportamenti che dovrebbero tenere i vari membri.
L’adesione al mito è espressa in modo analogico e mai mediante
metalinguaggio (Fruggeri, 1998; Malagoli Togliatti, Lubraro Lavadera,
2002). Secondo Ferreira (1966) il mito non si modifica grazie al
comportamento ma tenta di forgiarlo distorcendo la realtà. In tal modo il
mito funge da meccanismo di difesa in quanto consente di evitare tensioni
e conflitti. Secondo Bagarozzi e Anderson (1989), al contrario, il mito si
costruisce e ricostruisce nel presente garantendo l’identità del nucleo
familiare e promuovendone in tal modo lo sviluppo.
I paradigmi familiari comprendono non solo le credenze condivise circa
l’immagine che la famiglia ha di se stessa, ma anche la visione del
mondo condivisa. In questo modo permette ai componenti di orientarsi nella
vita quotidiana e di essere in grado di affrontare ciò che è nuovo. In
più il rapporto fra paradigmi familiari e comportamento interattivo è
bi-direzionale in modo tale che i primi siano in grado anche di modificare
il secondo (Fruggeri, 1998).
Grande importanza per la formazione di credenze condivise ha l’ambiente
in cui la famiglia è immersa e con cui continuamente interagisce.
L’idea di famiglia socialmente condivisa è quella della famiglia
nucleare tradizionale ed è in base a questa idea che vengono giudicate
tutte le altre forme di famiglia e si creano degli stereotipi su queste.
L’influenza degli stereotipi però non è unidirezionale in quanto anche
questi si modificano col modificarsi delle famiglie e delle credenze
condivise nel nucleo familiare (Ardone, 1990; Fruggeri, 1998).
I rapporti e i ruoli all’interno di una coppia sono legati anche alla
scelta oggettuale inconscia che è alla base del suo formarsi. La scelta
d’oggetto è alla base del formarsi di regole aperte, tacite o implicite
su come deve essere il rapporto di coppia. Tali regole, come anche le
aspettative sociali e individuali sulle modalità di relazione e i ruoli,
si modificheranno anche a seconda della fase del ciclo di vita
attraversato dalla coppia e la famiglia (Francescano, 1992).
I cambiamenti sociali degli ultimi anni hanno portato al mutamento
dell’immagine condivisa di famiglia improntata più alla parità, anziché
alla dominanza maschile, e allo scambio affettivo anziché a quello
istituzionale. Resta confermata però l’asimmetria nella condivisione
del lavoro familiare; questo infatti resta prevalentemente a carico della
donna (Ardone, 1990; Fruggeri, 1998).
L’imposizione del lavoro domestico e di cura alla donna è da
rintracciarsi nelle rappresentazioni dei due sessi; la donna è
rappresentata come ricca rispetto all’uomo di capacità di cura,
espressività ed empatia (Ravaioli, 1978; Argentieri, 1995; Francescano,
1992; Fruggeri, 1998; Reale, 2000) mentre l’uomo sarebbe più orientato
all’autorealizzazione e l’indipendenza. Secondo altre tendenze
socialmente prevalenti nei conflitti gli uomini tenderebbero a
distanziarsi mentre le donne preferirebbero mantenere la comunicazione, le
donne si sentirebbero minacciate dalla separazione mentre gli uomini
dall’intimità, le donne tenderebbero a riferirsi all’etica della
responsabilità e gli uomini a quella del diritto e, per quanto concerne
la comunicazione, le donne tenderebbero a ricercare il dialogo e gli
uomini a fuggirlo amplificando così la richiesta di dialogo delle donne
che, a sua volta, amplifica la chiusura degli uomini al dialogo
(Francescano, 1992; Fruggeri, 1998).
Le ipotesi circa la formazione delle differenze di genere le fanno
risalire o alla socializzazione o ad una costruzione sociale che si
produce e riproduce nelle interazioni quotidiane. La prima ipotesi fa
riferimento solo alla dimensione familiare in cui avverrebbe
l’apprendimento delle differenze di genere attraverso le relazioni con i
genitori; tali differenze una volta acquisite rimarrebbero costanti. La
seconda ipotesi considera le differenze di genere come dovute
all’intreccio di processi simbolici e relazionali di tipo sociale,
individuale e familiare; tali differenze sarebbero dinamiche (Fruggeri,
1998).
MODI
E FORME DEL MALTRATTAMENTO PSICOLOGICO NEL CONTESTO DI COPPIA
La
famiglia e la coppia presentano delle caratteristiche che possono rendere
più facile il maltrattamento di qualsiasi forma esso sia; infatti la
continua vicinanza nello stesso luogo, la mancanza per ciascuno dei propri
spazi, può portare alla sensazione che l’altro sia eccessivamente
intrusivo e ciò può scatenare aggressività, la convivenza di persone di
età e genere differenti rende più frequenti i conflitti generazionali e
di ruolo e il maggior coinvolgimento emotivo porta a reazioni più marcate
nei momenti di crisi.
Il maggior coinvolgimento emotivo, l’interdipendenza affettiva e
materiale che lega i vari membri e la maggior conoscenza delle rispettive
biografie, li rende anche più vulnerabili e fragili nei confronti di un
eventuale maltrattamento (Gulotta, 1984).
Il
maltrattamento psicologico
Il
maltrattamento psicologico si articola in una serie di comportamenti che
mirano a svalutare una persona ponendola in una condizione di
subordinazione e danneggiandone il benessere psicologico ed emotivo; tali
comportamenti non hanno effetti fisici evidenti, come nella violenza
fisica o in quella sessuale, e sono molto difficili da riconoscere sia da
parte di un osservatore esterno sia da parte della vittima stessa
(Tinelli, 2000; Reale, 2000), anche perché spesso, specie se mossi nei
confronti di una donna, sono culturalmente accettati (Muratore, 2003;
Reale, 2000).
Il messaggio che passa attraverso questi comportamenti è che la vittima
sia una persona priva di valore, tali atteggiamenti si insinuano
gradualmente nella relazione portando la vittima ad accoglierli, a
tollerarli e ad accettare in seguito anche altri comportamenti quali la
violenza fisica e sessuale (Paunez, 2004).
Per parlare di abuso psicologico è necessario che questi comportamenti
siano talmente pervasivi da far sorgere serie preoccupazioni circa il
funzionamento e le condizioni emotive della vittima (Tinelli, 2000).
Secondo Marie-France Hirigoyen (1998) il rapporto molesto attraversa due
fasi: la seduzione perversa, o fase di condizionamento, e la violenza
palese o violenza perversa.
Durante la fase di condizionamento la vittima viene destabilizzata fino a
perdere la fiducia in se stessa. Inizialmente l’aggressore la attrae
inviandole una buona immagine di sé e guadagnandosene così
l’ammirazione e inviandole un’immagine positiva di se stessa
sfruttando i suoi istinti protettivi. Le fa credere di essere libera ma,
contemporaneamente, la priva della sua libertà e del senso critico per
potersi difendere, inducendola ad obbedire inizialmente per far piacere al
partner o consolarlo, per dipendenza, acquiescenza e adesione, poi per
timore derivante da minacce velate e intimidazioni che la rendono sempre
più debole. Si verifica il cosiddetto ‘lavaggio del cervello ’ o
‘controllo mentale’ (Tinelli, 2000; Reale, 2000).
La vittima viene privata di contatti sociali e rapporti con la famiglia
d’origine perchè vietati dal partner. Lo stesso stato di tensione o
stress permanente in cui viene a trovarsi la potrebbero portare ad
assumere una posizione difensiva e ad essere scontrosa, lamentosa o
ossessiva inducendo chi la circonda ad allontanarsi da lei. Il partner
potrebbe indurla a privarsi di rapporti sociali anche aizzandola contro le
persone con allusioni, dubbi e bugie, oppure cercando di suscitarne la
gelosia perché tenda ad essere sempre più protettiva verso di lui ed
eviti il conflitto concentrando le sue forze nel conflitto con una terza
persona.
Le viene attribuita eccessiva responsabilità nel prendersi cura della
famiglia anche con richieste che non possono essere soddisfatte
sottolineandone così l’impotenza. Le responsabilità e l’isolamento
determinano nel partner dominato una continua difficoltà che ne favorisce
il controllo; infatti questi diventa dipendente dall’aggressore in un
contesto in cui lui rappresenta l’unica fonte di soddisfazione del
bisogno fondamentale di relazione.
A tutto ciò vanno aggiunte la distorsione della realtà oggettiva operata
mediante la continua critica alla visione del mondo del partner dominato,
la messa in dubbio delle cose provate o viste e dei suoi sentimenti, la
negazione della sua autonomia di scelta, l’induzione del senso di colpa
se non accetta le imposizioni e le limitazioni che gli vengono fatte, e la
paura indotta in lui attraverso minacce esplicite di percosse, morte,
sottrazione di figli e denaro, e comportamenti imprevedibili come sbattere
le porte e rompere gli oggetti (Ventimiglia, 1996; Hirigoyen, 1998; Reale,
2000; Paunez, 2004).
Il processo di condizionamento si svolge attraverso la comunicazione che
è di tipo perverso in quanto mira ad allontanare lo scambio e ad usare
l’altro.
Innanzitutto la comunicazione viene negata e in questo modo vengono
attribuite importanza e significati nascosti al non detto; ciò porta la
vittima a cercare le spiegazioni che le vengono negate e a trovarsele da
sola incolpandosi senza ragione o attribuendo rimproveri e conflitti al
partner di cui però lui nega l’esistenza.
Per stancare l’avversario il partner maltrattante lo induce a travisare
il linguaggio attraverso la prosodia che dà un significato diverso alle
parole, mormora le parole costringendo l’altro a chiedere di ripeterle
perché non le ha sentite per poi accusarlo di non ascoltare. A volte
vengono utilizzati termini difficili perché l’altro non capisca e resti
sempre più confuso. L’aggressore può dare l’impressione di saperne
di più, di detenere la verità, attraverso discorsi totalizzanti e che
appaiono universalmente veri, portando così il partner a pensare come lui
e ad accettare come cosa vera e indiscutibile tutto ciò che dice.
Viene utilizzata anche la menzogna indiretta sottoforma di sottointesi e
risposte imprecise per la formazione del malinteso che portano la vittima
a non distinguere più cosa sia vero e cosa falso. (Ventimiglia,1996;
Hirigoyen, 1998).
Fra i comportamenti più comuni troviamo la svalorizzazione della vittima
che viene ottenuta attraverso il sarcasmo, la derisione anche in pubblico
e continue critiche e offese al partner, alle sue idee, alle persone
a cui è legato e alle cose che fa, fino a convincerlo che non vale niente
attraverso anche comportamenti non verbali e facendo leva sulle sue
debolezze per farlo sentire inadeguato, accusandolo ad esempio di eccesso
di emotività o di pazzia. La derisione in pubblico rende complici gli
spettatori nell’attacco ai punti deboli della vittima. La vittima viene
continuamente squalificata fino ad indurla a credere lei stessa di non
valere niente, viene trattata come un oggetto negandone autonomia e
personalità attraverso comportamenti quali indurla a cambiare aspetto e
modo di comportarsi e controllarla negli spostamenti (Hirigoyen, 1998;
Paunez, 2004; Santini,2004).
Grande importanza assumono nella comunicazione l’uso del paradosso e
della mistificazione. Il
concetto di mistificazione è stato introdotto da Laing (1969) per
indicare una modalità comunicativa che ha lo scopo di eludere un
conflitto, mantenendo così i ruoli stereotipati, creando confusione e
sostituendo un conflitto o una costruzione reale con una falsa. Può
essere attuata ad esempio confermando il contenuto di un’esperienza ma
disconfermandone la modalità, oppure disconfermando il contenuto
dell’esperienza dell’altro modificandolo con attribuzioni connesse
alla visione che si ha dell’altro. La mistificazione raggiunge il limite
estremo quando un soggetto cerca di portare confusione in tutta
l’esperienza, nei processi e nelle azioni dell’altro che ne risulterà
confuso su sé stesso e sugli altri. In un rapporto in cui è in atto una
mistificazione si configura una pseudo-reciprocità, in tal caso non
vengono considerati i mutamenti del rapporto e le conferme vengono fatte
su vecchi ruoli e aspettative che non sono reali (Wyenne et al., 1980).
Anche il paradosso ha lo scopo di impedire l’insorgere del conflitto ma
paralizzando e negando la vittima. La comunicazione paradossale è
costituita da una sollecitazione duplice secondo cui viene posta
un’ingiunzione primaria verbale e contemporaneamente un’ingiunzione
secondaria in contrasto con quella primaria ma espressa non verbalmente
che costituisce un messaggio sottointeso che viene percepito dalla vittima
ma di cui l’aggressore nega l’esistenza. A differenza della
mistificazione, nel paradosso è presente una terza ingiunzione che
paralizza la vittima in quanto non le fornisce un modo ‘corretto’ di
agire o esperire perché, secondo questa terza ingiunzione, qualunque modo
è sbagliato(Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967; Bateson, 1972). La vittima
in questo caso tende ad avere delle reazioni e ad innervosirsi ma, poiché
viene negata la fondatezza delle sue percezioni, viene accusata di essere
paranoica, viene messa in dubbio la sua capacità di giudizio e lei stessa
tende a ridere di sè, a sminuirsi e a sentirsi confusa su chi sia
l’aggressore e chi la vittima, arriva a sentirsi lei l’aggressore e a
sentirsi in colpa.
La violenza perversa viene scatenata quando la vittima si oppone al
condizionamento (Ventimiglia, 1996; Hirigoyen, 1998). Quando la vittima
tenta di esprimere ciò che prova viene fatta tacere con colpi bassi,
ingiurie, sottointesi, manifestazioni di condiscendenza e sarcasmo per
sminuirla e umiliarla e per evitare la comunicazione. L’aggressione è
continua, ogni ingiuria fa eco a quelle precedenti impedendo di
dimenticare, mentre in pubblico viene distillata a piccole dosi in modo
tale che se la vittima reagisce, ad esempio alzando la voce, sembri
aggressiva. Nella ricerca di uno scambio, la vittima rivela le sue
debolezze come tendenza alla depressione, all’isteria o alla
caratterialità, di cui l’aggressore si serve perché si metta in
ridicolo e si screditi da sola. Ciò che scatena le reazioni della vittima
è la paura suscitata dalle aggressioni (Hirigoyen, 1998).
Quando la vittima si separa dall’aggressore questi può molestarla con
un comportamento persecutorio, denominato stalking in America, con la
presenza, le telefonate, parole minacciose dirette e indirette, incursioni
sul posto di lavoro e l’utilizzo di ogni mezzo anche legale per
sottolinearne l’incapacità, minacciarne il senso di autonomia e
indipendenza, farla sentire impaurita e in trappola e contemporaneamente
mantenere un legame con lei (Hirigoyen, 1998; Paunez, 2004).
L’aggressore può coinvolgere anche i figli rappresentandosi ai loro
occhi come la vittima e portandoli a schierarsi dalla sua parte contro
l’altro genitore, rendendolo in questo modo ancora più solo (Ventimiglia,
1996).Le vittime spesso non sono in grado di usare la legge come
l’aggressore e le aggressioni sono talmente velate da essere
difficilmente riconosciute da un osservatore esterno, la vittima pertanto
non è in grado di difendersi (Hirigoyen, 1998; Paunez, 2004).
Fa parte del maltrattamento psicologico anche il maltrattamento economico
che mira a rendere la vittima completamente dipendente da questo punto di
vista. A questo scopo l’aggressore ad esempio vieta alla vittima di
lavorare (Proietti, 2004), non le fornisce informazioni circa il conto
corrente, la situazione patrimoniale e di reddito e non condivide con lei
le decisioni relative al bilancio familiare. In caso di separazione si
rifiuta di pagare gli alimenti arrivando persino a licenziarsi o la
costringe ad umilianti trattative per averli (Ventimiglia,1996; Paunez,
2004; Sintini, 2004).
Il lavoro, oltre a fornire l’indipendenza economica, consente anche di
sfuggire alla reclusione domestica e alla dipendenza affettiva che crea,
consente di avere rapporti sociali, ha notevoli effetti sull’autostima
grazie alla possibilità di affermarsi e di vedere riconosciute le proprie
capacità (Filosof, 2000).
Le
conseguenze
Il
maltrattamento psicologico procura grande sofferenza principalmente perché
il soggetto non riesce a riconoscerlo come tale e a riconoscersi come
vittima (Reale, 2000; Sintini, 2004). il maltrattamento psicologico,
oltretutto, non è visibile socialmente, se perpetuato nei confronti di
una donna, in quanto è culturalmente accettato che una donna non abbia
pensieri autonomi, faccia ciò che il marito le chiede e sia o pensi di
essere ciò che il marito le dice di essere (Reale, 2000; Muratore, 2003).
Il perpetuarsi di una distorsione della relazione agevola lo strutturarsi
di una serie di problemi fisici e mentali e sono tali problemi che portano
la vittima a chiedere aiuto (Reale, 2000).
Hirigoyen (1998) distingue due tipi di conseguenze alla violenza
psicologica: quelle alla fase di condizionamento che sono immediate e
consentono il perpetuarsi della violenza perché rendono la vittima
incapace di difendersi, e le conseguenze a lungo termine che si presentano
a distanza di tempo anche quando la vittima ha cominciato a reagire, a
riconoscersi come vittima e ad allontanarsi dall’aggressore.
La svalorizzazione continua porta alla perdita dell’autostima, al
sentimento di inadeguatezza, insicurezza e vergogna rispetto a cosa si fa,
si pensa e si sente, che induce la vittima a perdere la propria visione
del mondo assimilando la visione del compagno abusante nel tentativo così
di costruire una valorizzazione di sé; in questo modo si instaura un
rapporto asimmetrico che renderà possibile il perpetuarsi della violenza
(Hirigoyen, 1998; Reale, 2000).
Gli attacchi indiretti generano confusione che porta la vittima a vivere
una condizione di stress, portano a dubitare circa la distinzione fra
vittima e aggressore e la vittima tende ad attribuirsi delle colpe per
spiegarsi le aggressioni immotivate. A ciò si aggiungono l’eccessiva
responsabilità e il senso di privazione che rendono la vittima soggetta a
continue difficoltà da cui si sente sopraffatta e che la pongono in uno
stato di iper-eccitazione e ansia (Ventimiglia,1996; Hirigoyen,
1998; Reale, 2000; Paunez, 2004). La condizione protratta di stress porta
a sintomi quali suscettibilità individuale, palpitazioni, sensazioni di
oppressione, affanno, stanchezza, disturbi del sonno, irritabilità, mal
di testa, disturbi digestivi, dolori addominali e manifestazioni psichiche
quali ansia (Reale, 2000; Sintini, 2004) che può diventare cronica fino
all’insorgere di un disturbo d’ansia generalizzato con tensione
costante e ipervigilanza. La paura che la violenza possa esplodere in
qualunque momento, la mancanza di controllo della propria incolumità
fisica e la paura anche solo dei giudizi negativi dell’aggressore la
pongono in uno stato di incertezza e difficoltà permanente che la portano
a cercare di compiacere il partner per proteggersi. La vittima in questo
modo è sottoposta ad una tortura mentale ed emotiva che la fa sentire
come un ostaggio. La solitudine conseguente all’isolamento, sommata
all’incapacità di riconoscere la violenza, le rende impossibile cercare
aiuto e le causa paura e panico (Hirigoyen, 1998; Reale, 2000; Paunez,
2004). Lo stress, l’assuefazione agli atteggiamenti svalorizzanti e la
tendenza a reprimere le istanze di ribellione per bloccare gli
atteggiamenti aggressivi del partner, portano ad una situazione depressiva
di base su cui possono prendere piede sintomi psichici quali attacchi di
panico, comportamenti ossessivi e ripetitivi, ansia generalizzata,
disordini alimentari, disturbi di tipo psicotico, depressione cronica e
alcolismo(Tinelli, 2000; Reale, 2000; Reale, 2004).
La malattia appare anche come segnale di un disagio che non ha nome perché
non ne viene riconosciuta l’origine e come richiesta di aiuto e
solidarietà mascherata da richiesta di cure mediche (Reale, 2000).
Quando le vittime prendono coscienza dell’aggressione si trovano
disorientate, ferite, sorprese a causa della loro impreparazione a questa
scoperta dovuta al condizionamento e subiscono uno choc emozionale con
dolore e angoscia. La scoperta di essere state manipolate e ingannate le
porta a perdere la stima di sé e la propria dignità, provano un senso di
vergogna per non essere state in grado di reagire, a volte manifestano un
desiderio di vendetta, ma principalmente ricercano una riabilitazione e il
riconoscimento della loro identità da parte dell’aggressore che però
spesso non ottengono.
La perdita di un ideale, l’esperienza della sconfitta e dell’impotenza
e la sensazione di essere stati umiliati e presi in trappola possono
portare ad uno stato depressivo in cui la vittima si sente vuota, stanca,
priva di energia e di interessi, non riesce più a pensare o a
concentrarsi, e possono sopravvenire idee suicide.
Per alcune vittime la reazione è fisiologica, si presentano disturbi
psicosomatici in cui viene espressa un’aggressione psichica di cui non
si è coscienti. In questo caso il disturbo è direttamente conseguente
non alla violenza ma all’impossibilità di reagire della vittima.
Altre vittime potranno avere reazioni caratteriali alle provocazioni
continue in cui, nel tentativo di farsi ascoltare, possono arrivare a
crisi di nervi in pubblico, scatti violenti fino al crimine nei confronti
dell’aggressore o al suicidio come tentativo estremo di fuga da lui.
Il trauma prodotto dalla violenza può portare anche alla scissione o
disgregazione della personalità come difesa contro la paura, il dolore e
l’impotenza attraverso la distinzione di ciò che si può sopportare
dall’intollerabile che viene dimenticato ottenendo così sollievo e
protezione parziale.
Se la vittima prende la decisione di separarsi dal suo aggressore dovrà
affrontare dolore e senso di colpa perché l’aggressore in queste
situazioni si atteggia a vittima.
Anche quando la vittima riuscirà ad allontanarsi definitivamente
dall’aggressore, potrà presentare gli effetti della violenza subita
come reminiscenze della situazione traumatica che potranno portare anche
al disturbo post-traumatico da stress.
Il disturbo post-traumatico da stress generalmente è ricondotto ad una
situazione traumatica in cui la vittima si è sentita minacciata per la
sua incolumità fisica; ma anche le vittime di violenza sono state messe
in uno ‘stato d’assedio’ che le ha costrette a stare sempre sulla
difensiva (Hirigoyen, 1998). La vittima pertanto potrebbe rivivere le
aggressioni e le umiliazioni impresse nella memoria sia di giorno che di
notte, con incubi e insonnia. Parlare degli episodi traumatizzanti può
suscitare manifestazioni psicosomatiche che corrispondono a paura, le
vittime possono presentare disturbi della memoria o di concentrazione,
perdere l’appetito o avere comportamenti bulimici e aumentare il consumo
di alcol o di tabacco. A più lungo termine la paura suscitata dai ricordi
può portare a strategie per evitarli con conseguente diminuzione
dell’interesse per le attività e una diminuzione degli affetti (Sgarro,
1997).
La comunicazione paradossale, in una situazione in cui vi sia una
relazione intensa con alto valore di sopravvivenza fisica e psicologica
come nel rapporto di coppia, costituisce un doppio vincolo che, se
ripetuto in maniera tale da diventare una modalità comunicativa attesa
nella relazione, può portare il partner che lo subisce a reagire con
comportamenti che possono indurre alla diagnosi di schizofrenia (Beateson,
1972). Anche la mistificazione, nel generare disordine e dubbi non
riconosciuti come tali, è una modalità comunicativa a potenziale
schizogeno (Laing, 1969).
Le
origini della vulnerabilità femminile
Il
maltrattamento psicologico può essere perpetrato sia nei confronti degli
uomini che delle donne; le donne però appaiono più fragili, così come
avviene per altri tipi di violenza all’interno della coppia, sia perché
economicamente più deboli, sia perché è stato loro attribuito per lungo
tempo un ruolo subordinato rispetto all’uomo. La violenza contro le
donne nella storia è stata socialmente accettata come un aspetto della
normale condizione di subordinazione femminile fatta eccezione per quei
reati che, per la loro eccezionalità, scuotevano l’opinione pubblica e,
proprio perché eccezionali, si prestavano bene ad interpretazioni di tipo
individualistico e psicologistico secondo le quali il violento presenta
psicopatologie o marginalità sociale e la vittima è masochista e
complice della violenza (Giannini,1995; Radford, 2000; Romito, 2000).
Il nodo del problema veniva ricercato nella vittima che era ritenuta
responsabile di aver reso possibile la violenza se non assumeva le
precauzioni per non esporsi al rischio; infatti le venivano consigliati
comportamenti che ledevano la sua libertà ma non venivano prese
precauzioni perché fosse messo l’aggressore nella condizione di non
nuocere (Radford, 2000).
In Italia dal 1942 fino al 1970 il codice civile stabiliva l’obbligo per
il marito di mantenere la moglie e, per alcuni mariti, tale obbligo dava
loro il diritto di sottometterla. Questo diritto è stato avvalorato più
volte dalla Corte di Cassazione che ha stabilito negli anni Cinquanta e
Sessanta che il marito potesse impedire alla moglie di lavorare,
picchiarla, controllarle la posta e pretendere prestazioni sessuali, non
ritenendo pertanto stupro quello esercitato sulla moglie. L’uguaglianza
di diritti e doveri fra i coniugi venne sancita dalla Corte Costituzionale
nel nuovo diritto di famiglia del 1975. Nella pratica, però, il delitto
d’onore, secondo il quale un uomo che uccideva una donna della sua
famiglia poteva avere delle attenuanti se il delitto era stato commesso
perché lei ne aveva leso l’onore, è stato abrogato solo nel 1981.
Inoltre nel 1996 la Corte di Cassazione aveva dichiarato che la violenza
fisica da parte del marito verso la moglie non costituiva maltrattamento (Ravaioli,
1978; Boneschi, 1999; Romito, 2000).
Con il femminismo a partire dagli anni ’70 e coi primi gruppi di
autocoscienza, auto-aiuto e i centri anti-violenza, si rileva per la prima
volta l’entità del fenomeno della violenza che appare troppo diffuso e
trasversale rispetto a variabili quali età, religione e posizione
sociale, per poter essere letto ancora in termini psicopatologici.
Tutte le forme di violenza presentano una specificità di genere secondo
la quale è molto più frequente l’aggressione da parte di un uomo nei
confronti di una donna che l’aggressione da parte di una donna verso un
uomo. La violenza verso una donna ha lo scopo di controllarla riducendola
al silenzio, limitandone la libertà e portandola ad addossarsi lei la
responsabilità della violenza stessa (Giannini, 1995; Ventimiglia, 1996;
Radford, 2000).
La violenza maschile quindi appare come uno strumento per mantenere il
controllo sulle donne e anche come legata alla costruzione del genere
maschile e al concetto di mascolinità nel contesto sociale (Radford,
2000; Romito, 2000).
Secondo il pensiero femminista la divisione dei ruoli, che impone alla
donna tutto l’onere del lavoro domestico e dell’educazione dei figli,
rappresenta una vera e propria pratica politica e sociale che stabilisce
una gerarchia fra i sessi del tipo dominatore/dominato in quanto non ha
altra ragione d’esistere. Mentre per la casalinga si può ipotizzare che
il lavoro domestico venga svolto in cambio del mantenimento, per la donna
che lavora viene svolto in cambio di niente (Filosof, 2000).
La stessa Costituzione italiana afferma all’articolo 37 che la donna ha
diritto ad un lavoro e una retribuzione pari a quelli dell’uomo, ma le
condizioni di lavoro devono consentirle l’adempimento della sua
essenziale funzione familiare (Boneschi, 1999)
L’appropriazione del tempo e del lavoro delle donne le porta spesso a
scegliere soluzioni lavorative meno redditizie rendendole così
parzialmente dipendenti dal partner e meno in grado di sfuggire alla
violenza; infatti molte donne continuano a convivere con un partner
violento anche per necessità economiche (Filosof, 2000).
Il ruolo femminile di cura socialmente riconosciuto entra nel circuito
della violenza sia prima del suo nascere, quando porta una donna
all’atteggiamento di colei che deve soddisfare qualunque bisogno o
richiesta, sia nel suo perpetuarsi, quando la violenza è considerata come
naturale conseguenza alle mancanze nel comportamento di cura (Reale,
2000).
Un altro stereotipo che ha portato per lungo tempo a ignorare la violenza
sulle donne e a colpevolizzare la vittima stessa, è il supposto
masochismo della vittima. Davanti ad una donna che subisce soprusi e,
nonostante ciò, continua a difendere il suo aggressore e non si allontana
da lui, si pensava che la vittima fosse masochista.
In realtà il masochismo patologico è presente in modo limitato fra le
donne vittime di violenza e in quei casi è difficile stabilire se fosse
preesistente al maltrattamento o sia una conseguenza della vittimizzazione
(Ravaioli, 1978; Giannini, 1995).
Si può parlare di masochismo della vittima però anche come masochismo
non patologico, corrispondente alla rinuncia alla propria personalità e
ai propri bisogni che una donna mette in atto per il ruolo di cura che le
viene attribuito dalla società (Ravaioli, 1978). Ciò però non rende la
vittima meno vittima perché se ha partecipato passivamente al processo
della violenza, è perchè le manovre dell’aggressore l’hanno indotta
a farlo.
A riprova di ciò, quando le vittime riescono a separarsi
dall’aggressore provano un grande senso di liberazione perché, al
contrario dei masochisti, la sofferenza in sé non le interessa; il
masochismo scompare dopo la separazione dall’aggressore e non si
manifesta in altri contesti (Hirigoyen, 1998).
ALCUNE
CONSIDERAZIONI FINALI
L’entità
dei disturbi che possono essere provocati dal maltrattamento psicologico,
rende necessari degli interventi preventivi nei confronti di questo
fenomeno.
La prevenzione può essere primaria, secondaria e terziaria. La
prevenzione primaria mira all’eliminazione della causa del fenomeno,
quella secondaria mira a trattare il fenomeno il più precocemente
possibile per prevenirne la completa manifestazione o il suo ripetersi, e
quella terziaria mira ad attenuare le conseguenze di un fenomeno nei
soggetti in cui già si è manifestato (Gulotta, 1984).
Rientra nell’ambito della prevenzione secondaria l’individuazione dei
casi in cui si stia già manifestando il fenomeno; ma si è potuto notare
come ciò che rende più problematica la violenza psicologica è la
difficoltà di riconoscerla come tale dalla vittima stessa. La vittima
riuscirà a chiedere aiuto per un disagio che non ha nome soltanto
dandogli un nome, ossia attraverso sintomi di problemi fisici e mentali.
Sarà compito degli operatori del servizio a cui la donna si rivolgerà
riconoscere, indagando opportunamente, l’origine e la natura del
disturbo per aiutarla a scegliere il percorso più indicato per uscire
dalla violenza e dalla sofferenza.
Un ulteriore problema è che spesso la violenza all’origine del disturbo
non viene riconosciuta dagli operatori a causa di pregiudizi ancora molto
radicati che li porta a non indagare adeguatamente ignorando completamente
il fenomeno. È necessario quindi istituire dei corsi specifici di
formazione che consentano di conoscere meglio il fenomeno e le modalità
d’intervento (Romito, Crisma, 2000; Paci, Romito, 2000; Ventimiglia,
1996).
Sempre nell’ambito di una prevenzione secondaria dovrà essere apportato
un intervento nei casi individuati per contrastare il perpetuarsi del
fenomeno (Gulotta, 1984). Fondamentale per uscire dalla fase di
condizionamento e dalla conseguente dipendenza dal partner è riconoscere
la violenza e di essere vittima, senza la possibilità di addossarsi colpe
e responsabilità. La valutazione della dipendenza stessa non deve essere
ricondotta ad una qualche caratteristica di personalità ma solo come
effetto del condizionamento e pertanto revocabile e modificabile.
Le reazioni della vittima devono essere valutate come le uniche possibili,
senza mai insinuare il dubbio che sia stata in qualche modo complice
dell’aggressore, per combattere il senso di colpa.
La donna dovrà essere aiutata ad agire per non essere più vittima, dovrà
pertanto imparare a non giustificarsi continuamente quando attaccata, a
prendersi tempo per riflettere, ad allontanarsi dall’aggressore
evitando, se è il caso, il dialogo diretto con lui utilizzando la
mediazione di una terza persona, anche perché è proprio quando la
vittima si sottrae alla sottomissione che l’aggressione psicologica si
intensifica. Dovrà essere aiutata a recuperare autostima e fiducia in se
stessa, a recuperare i propri interessi, ricercare risorse sia interne che
esterne modificando contesto e stile di vita e dovrà essere supportata in
un nuovo progetto di vita che non neghi la violenza ma che la faccia
diventare occasione di un cambiamento per poter superare l’immagine
soggettiva di vittima (Hirigoyen, 1998; Reale, 2000; Reale, 2004).
È necessario darle anche la possibilità di esprimere la collera che fino
a quel momento era stata censurata (Hirigoyen, 1998).
L’utilizzo esclusivo di un intervento psicoterapeutico individuale per
aiutare le vittime di violenza psicologica, rischia di essere dannoso
poiché tende a considerare il singolo individuo come portatore di
problemi e, pertanto, rischia di colpevolizzare e stigmatizzare la vittima
colludendo in questo modo con l’aggressore (Nasorri, 1998; Romito,
Crisma, 2000; Paci, Romito, 2000).
Il gruppo invece consente di condividere le esperienze, di scoprire così
di non essere le uniche, di uscire dall’isolamento e consente di
comprendere che il maltrattamento è un fenomeno diffuso con connotazioni
culturali e sociali, arrivando così a superare il senso di colpa. Allo
stesso tempo nel piccolo gruppo possono essere recuperate la propria
individualità e il proprio valore e si può ritrovare un momento da
dedicare a se stesse e da togliere al ruolo di cura, un’occasione quindi
per darsi valore e recuperare le capacità affermative che la dipendenza
protratta ha negato. Le capacità affermative possono essere recuperate
anche attraverso esercizi che mirino all’espressione della collera
nell’ambiente protetto del gruppo per superare il processo della
vittimizzazione (Gruppo di lavoro e ricerca sulla violenza alle donne,
1993).
Il piccolo gruppo di auto-aiuto caratterizzati dall’assenza di figure
professionali in veste di leader formale, i cui membri sono considerati
alla pari e sono chiamati alla partecipazione personale con la
condivisione delle esperienze, difficoltà e disagi attraverso interazioni
faccia a faccia, consente di conferire ai membri un ruolo attivo che non
è quello di paziente (Nasorri, 1998).
In un’ottica preventiva i gruppi di auto-aiuto potrebbero fornire
sostegno e difesa dallo stress alle vittime di violenza psicologica per
poterne prevenire le conseguenze a lungo termine, i gruppi di
autocoscienza, opportunamente strutturati in modo da garantire la
‘sicurezza psicologica’ , così come i gruppi di crescita personale e
autorealizzazione possono fornire l’opportunità per riflettere sul
fenomeno della violenza psicologica per poterla riconoscere, e
incrementare le capacità di autoaffermazione e autostima per poterla
contrastare.
Certamente i gruppi per le donne vittime di violenza sono già diffusi, ma
si concentrano principalmente sulla violenza fisica o sessuale mentre
sarebbe necessario focalizzarsi anche sul maltrattamento psicologico
considerandolo come un fenomeno violento con effetti non trascurabili.
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