I Disturbi
del Comportamento Alimentare dal punto di vista dei Genitori.
Cosa
possono fare per aiutare i propri figli, e sé stessi?
Agostino
Cielo
Affrontare
in termini generali il disturbo alimentare equivale a spiegare la cause
che portano al disturbo, descrivere nel dettaglio i sintomi che lo
caratterizzano, e di conseguenza suggerire strategie e consigli utili per
aiutare la persona che soffre.
Il sintomo, anoressico/bulimico che sia, rischia in effetti di diventare
una etichetta anche e soprattutto per la persona malata e per i suoi
familiari, che rappresenta l’unica identità in cui riconoscersi e con
la quale coincide l’intera esistenza.
Il sintomo in altre parole accomuna, rende uguali gli individui e lascia
indistinti i percorsi”personali”, quelli cioè che hanno portato alla
malattia, attraverso una storia unica ed irripetibile. Gli eventi
personali sono gli unici che possono “ridare senso” alla malattia, e
vanno riportati in primo piano.
La malattia in tal senso non è considerato un fatto “accidentale” che
va eliminata il prima possibile, ma un segnale, a volte un grido
disperato, che non deve essere ignorato o messo a tacere.
In considerazione della giovanissima età di insorgenza di questa malattia
i genitori sono un riferimento fondamentale, ma allo stesso tempo sono le
figure maggiormente coinvolte emotivamente. Un valido cammino terapeutico
per i figli non può prescindere da un percorso parallelo da parte dei
genitori. Ciò però rischia di scontrarsi con un buon numero di
resistenze (comprese quelle degli operatori)
. Una malattia del genere inevitabilmente “rimette in discussione”, e
questo non viene accettato di buon grado da nessuno, in particolare per
quei genitori che, più o meno esplicitamente, sono convinti di essere i
colpevoli della malattia.
Questo
infatti è il messaggio implicito spesso fornito dai mass-media, che molte
volte corrisponde anche all’accusa da parte dei figli.
Invece
di chiedersi "cosa abbiamo sbagliato?" è indubbiamente più
utile domandarsi "cosa sta cercando di comunicare nostro figlio
attraverso la malattia?".
Proverò ad evidenziare ulteriori elementi che, anche se del tutto
convincenti da un punto di vista cognitivo (anche perché vengono presi in
prestito da modelli scientifici del tutto validi), rischiano di venire
impiegati più al servizio delle resistenze, che per una consapevolezza
profonda.
Il
modello medico:
Tipicamente
i Genitori chiedono notizie sulle cause, il tipo cura, i tempi di
guarigione.
Nello stesso modo in cui ci si potrebbe avvicinare alle “altre
malattie”.
Ma appare evidente che i DCA non sono esattamente una patologia causata da
qualche agente esterno, che possa essere compresa, e curata, in una
prospettiva puramente medica.
Le spiegazioni in termini di causa-effetto rischiano sempre di essere
riduttive, ma nel caso dei DCA sono addirittura fuorvianti.
Per quanto difficile da accettare, non solo per i genitori, ma spesso per
i medici stessi, il disturbo alimentare rappresenta comunque un elemento
di equilibrio.
Di fronte ad una profonda situazione di disagio e di fragilità, là
modalità anoressica rappresenta una scelta, inconsapevole ed inevitabile.
Ancora una volta, piuttosto che ricercare la cause della malattia, si può
provare a considerarla una richiesta d’aiuto, ed ascoltarla secondo
questa prospettiva.
Il
modello Sociale:
Si
parla spesso di Dca in termini di malattia sociale, nel senso che
rispecchiano, anche se in forma caricaturale, i valori della nostra società:
la bellezza intesa come forma fisica e snellezza. In tal senso si sente
parlare di ragazze che diventano anoressiche per inseguire modelli di
bellezza ammirati sui mass-media.
In realtà la prospettiva sociale è assolutamente importante, ma
rappresenta solo la cornice entro cui situare spiegazioni più profonde,
che devono essere di natura individuale.
E’ davvero difficile credere che una malattia così drammatica, e con
risvolti così ostinatamente autodistruttivi, possa essere spiegata solo
attraverso meccanismi di imitazione ed influenze culturali.
La persona malata è all’interno di un percorso di cui vede solo il
punto in cui si trova attualmente. Può solo intravedere, confusamente, il
punto d’arrivo, ma non conosce il modo per arrivarvi né quanto sia
lungo il tragitto.
E’
il cammino verso la guarigione.
I
genitori che decidono di affiancare questo cammino dovranno però
comprendere che alla maggior parte delle domande possono rispondere loro
stessi. Gli esperti possono solo agevolare questo processo, che potremmo
definire di auto-aiuto, ma non sono in possesso di nessun sapere tecnico
che possa, da solo, risolvere il problema.
Gli elementi che rischiano di bloccare il cammino, e che non permettono
nessuna evoluzione sono schematicamente i seguenti.:
-
Da
un punto di vista cognitivo: i pre-giudizi, le informazioni errate o
superficiali sulla malattia, provenienti spesso dai mass-media, da
libri divulgativi o dalle opinioni di personale poco qualificato.
-
Da
un punto di vista emotivo: i sensi di colpa, i sentimenti di
rabbia o impotenza.
E’
invece importante accettare che il disturbo alimentare è l’espressione
di un disagio profondo e complesso, rispetto al quale i genitore non deve
interferire, ma che può aiutare solo attraverso pazienza e disponibilità
all’ascolto.
Alcuni elementi di consapevolezza che possono essere d’aiuto al genitore
stesso e favorire il processo di auto-aiuto, sono i seguenti:
-
La
persona malata non è in grado di esprimere questo disagio in
un’altra maniera; nello stesso modo in cui, ad esempio, un bambino
può segnalare il dolore solo attraverso il pianto. Non possiamo
pretendere che un bambino ci esprima chiaramente il suo malessere solo
perché noi non siamo capaci di comprendere il suo linguaggio.
-
Il
disturbo non è generato semplicemente da una causa, ma è determinato
da un insieme molto complesso di fattori, spesso invisibili. Da questo
si deduce che la guarigione è un processo lungo ed insidioso. La
guarigione di una malattia così complessa non può quindi consistere
nell’individuazione di una causa, eliminata la quale, si ritorna a
casa guariti.
In
conclusione, è fondamentale che i genitori si riapproprino del loro
ruolo, soprattutto dal punto di vista affettivo, lasciando ai
professionisti del sintomo (psicologi, medici, dietologi) gli aspetti
relativi alla cura ed alla gestione del cibo.
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