Il
Mobbing: operatori sanitari e vittime attraverso gli occhi di una giovane
psicologa.
Valeria Castellani
INTRODUZIONE
Intendo
soffermarmi poco o nulla sulla definizione, la suddivisione in fasi e le
differenti tipologie di mobbing. Aspetti teorici di fondamentale
importanza, proprio per questo disponibili su qualsiasi testo che tratti
l’argomento. Ciò che mi interessa è coinvolgere il lettore, portarlo
dentro il fenomeno, dare a lui la possibilità, quantomeno virtuale, di
fare la conoscenza dei molteplici attori coinvolti in quella grottesca
commedia chiamata mobbing…
Conseguita la laurea, era il 3 Marzo del 2003, dopo circa 10 giorni, non
ancora totalmente consapevole della mia “nuova” identità, mi trovai
all’interno della fervente attività di uno dei più noti centri mobbing
del Lazio, organizzato ed istituito presso una grande struttura
ospedaliera di Roma.Indossato un camice “di fortuna”, presi block
notes, penna e mi sedetti affianco al medico: stavo assistendo per la
prima volta ad un colloquio con un paziente presumibilmente vittima di
mobbing.L’impatto iniziale non fu affatto facile; era anzi estremamente
complesso riuscire a rimanere distaccati e professionali davanti alla
manifestazione palese di sofferenza e disperazione di persone che sovente
avevano dedicato la loro esistenza all’attività lavorativa e che ora,
non più “utili” all’azienda, vengono indotti (il più delle volte
con modalità poco ortodosse) ad abbandonare tutto.Proprio per questo
definiamo il mobbing come una “forma di terrore psicologico sul
posto di lavoro esercitata, attraverso comportamenti aggressivi e
vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori.”
E’ importante comunque precisare, per una corretta attività di
diagnosi, trattamento e prevenzione, la globalità e la complessità
dell’approccio al fenomeno, che tiene strettamente legati i due termini
della relazione: da una parte la persona con il proprio disagio e la
propria sofferenza, dall’altra l’ambiente di lavoro con le sue
peculiarità, contraddizioni organizzative ed il suo potenziale patogeno.
Tale consapevolezza sarà, come vedremo nella parte finale di questo
articolo, di fondamentale importanza per delineare e circoscrivere le
caratteristiche, gli ambiti di attività nonché le finalità di un buon
centro mobbing, ancora piuttosto latitante a livello regionale (tenendo
chiaramente presenti le difficoltà di tipo burocratico-economico e la
relativa inesperienza delle strutture sanitarie in tale campo rispetto, ad
esempio, ai paesi del Nord Europa). Modalità
d’intervento del servizio mobbing, Ospedale Sant’Andrea di Roma:
l’iter diagnostico per la certificazione finale.
Un gruppo di ricerca, costituito da medici del lavoro, psicologi e
psichiatri, intraprende nel 2001 una pionieristica (quanto meno per la
realtà territoriale del Centro-Sud) attività ambulatoriale dedicata alla
problematica del mobbing, con la volontà di analizzare tale fenomeno e
sollecitare la proposta di criteri di valutazione.L’iter
clinico-diagnostico, la cui finalità è l’accertamento dell’esistenza
di una situazione lavorativa compatibile con una condizione di mobbing, è
così articolato: primo incontro con il paziente, durante il quale si
provvede alla compilazione di una cartella clinica nella quale viene
raccolta un’anamnesi lavorativa remota e prossima. Tenuto conto del
fatto che la testimonianza del paziente è l’unica fonte di informazione
in nostro possesso, si cercherà di evidenziare durante tale colloquio
epoca di insorgenza e fenomenologia degli episodi, particolari accadimenti
riguardanti il rapporto con superiori e colleghi di lavoro, nonché
l’esistenza di particolari patologie psicosomatiche eventualmente
correlate con una situazione di stress occupazionale.Da pochi mesi, in
collaborazione con il servizio ambulatoriale di Medicina Interna, è stato
introdotto un nuovo accertamento che prevede una visita
neuroendocrinologica per l’approfondimento di quegli aspetti clinici
correlabili allo stress mediante un prelievo ematico e la somministrazione
di un dosaggio minimo di cortisolo. Variazioni ormonali potrebbero infatti
essere collegate ad una situazione di stress vissuta in quel momento
dall’individuo in ambito lavorativo. Il
paziente proseguirà gli ulteriori accertamenti presso il servizio di
psichiatria, dove sarà sottoposto alla somministrazione di test di
personalità (MMPI 2), test di Zung per l’ansia e per la depressione e
ad un colloquio psichiatrico maggiormente mirato alla rilevazione delle
attuali condizioni mentali. Terminato
l’iter di accertamenti psico-diagnostici, medici, psicologi e psichiatri
valuteranno in un lavoro di equipé la storia lavorativa del paziente, la
presenza o meno di tipiche azioni vessatorie, soprusi e violenze morali
nonché la rilevazione di un Disturbo dell’Adattamento o, raramente, di
un Disturbo Post Traumatico da Stress.L’analisi statistica delle
cartelle cliniche e delle certificazioni finali rilasciate indica, per una
popolazione totale di circa 500 unità affluite al servizio di medicina
del lavoro, una diagnosi di Disturbo dell’Adattamento o di DPTS nel
74,8% dei casi. Per il
25,2% non è stato possibile rilasciare una certificazione positiva, poiché
sono state riscontrate patologie psichiatriche che hanno indotto a
rinviare ad una successiva visita di controllo a seguito di opportuna
terapia presso centri specializzati, e poiché non è stato possibile
esprimere un giudizio per la mancanza di elementi diagnostici.In
particolare, tra coloro che hanno ottenuto una certificazione positiva, i
dati evidenziano una modesta prevalenza delle donne (51,1%) rispetto agli
uomini (48,9%).Di questi, il 79% sono impiegati ed il 21% sono operai; la
fascia di età maggiormente interessata è quella compresa tra i 31 ed i
40 anni (34%). Inoltre, il 61% dei pazienti proviene da aziende private,
il 39% da aziende pubbliche.Per quanto riguarda il titolo di studio,
risultano maggiormente colpiti dal fenomeno coloro che posseggono il
diploma (52%), cui seguono i laureati (27%) e coloro che sono in possesso
della licenza di scuola media (21%). In conclusione, un dato a mio parere
di fondamentale importanza, poiché testimonia che anche individui
“sani” possono trovarsi in una situazione di mobbing, è che solo
l’8,1% dei soggetti soffriva di patologie psichiatriche pregresse.
Queste le modalità di
intervento di un importante centro mobbing, i dati relativi alla sua
attività (che senz’altro possono aiutarci a definire i contorni e le
caratteristiche tutt’ora poco chiare del fenomeno); ma quali sono i
“gap”, le carenze sulle quali intervenire per costituire, ad esempio,
un servizio che affronti la problematica nella sua globalità e complessità?
Idee e suggerimenti a
riguardo…
Riflessione
sulle modalità di intervento…l’importanza della prevenzione. Poiché
il disagio da lavoro (nelle sue molteplici espressioni) è un prodotto che
origina dal contesto lavorativo, a mio parere la caratteristica chiave di
un centro mobbing consiste nel suo orientamento alla prevenzione.Ciò vuol
dire assistenza alle aziende per la creazione di una rete
“contenitiva” del disagio psicologico attraverso, ad esempio, la
costituzione di un codice etico di comportamento e l’analisi del clima
aziendale, favorendo così l’acquisizione di un’abilità di
monitoraggio delle relazioni interne, per contribuire alla creazione ed al
mantenimento di una realtà di “benessere lavorativo”.Un esempio
applicativo è fornito dal centro mobbing della ASL RM C, il quale
collabora con il Servizio Pre.S.A.L., organo di vigilanza in materia di
igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, deputato al controllo degli
specifici obblighi del datore di lavoro (sanciti dall’art. 4 del D.lgs.
626/94).A tal proposito, nel “Consensus Document” (pubblicato su
“Medicina del Lavoro” 2001, p.69) leggiamo che: “l’organo di
vigilanza per i luoghi di lavoro potrebbe essere il primo punto di
riferimento del lavoratore, soprattutto nelle aziende che non sono tenute
ad avere un medico competente in quanto non sono presenti quei rischi per
i quali è richiesta assistenza sanitaria. […] Infatti, l’organo di
vigilanza può svolgere indagini, accedere ai luoghi di
lavoro…analizzare le modalità organizzative, procedurali ed ergonomiche.”
Altro importante aspetto
riguarda il momento del primo colloquio nel quale, psicologo e medico del
lavoro, dovrebbero inquadrare la situazione lavorativa, definirne i punti
critici, facendo emergere la condizione di disagio del lavoratore, sovente
esplicitata da una sintomatologia evidente e documentata. Già dal primo
incontro si offrirà un “contenimento” emotivo al malessere del
paziente, non mancando di individuare e fornire delle indicazioni pratiche
per una possibile soluzione del problema. Condizione ottimale quanto mai
auspicabile sarebbe poi un contatto diretto con l’azienda, per tentare
un coinvolgimento del medico competente, se presente, nonché del datore
di lavoro e dei colleghi. E’ evidente la delicatezza di un tale
intervento, che chiaramente è legato al caso specifico e in base ad esso
si configura.Il centro dovrebbe a mio parere offrire al suo interno un
ciclo di colloqui psicologici di sostegno, volti ad aiutare il paziente a
riacquistare fiducia, consapevolezza e controllo riguardo la situazione
lavorativa contingente. In
caso di indicazioni diagnostiche maggiormente critiche, la persona
dovrebbe essere avviata verso un percorso terapeutico maggiormente
articolato, presso, ad esempio, il Servizio di Salute Mentale della zona
di residenza. Infine, poiché la complessità del fenomeno, come già
accennato, necessita di un approccio altamente multidisciplinare, sarebbe
utile fornire qualora il lavoratore lo desideri, una consulenza di tipo
legale per il recupero ed il reinserimento nella professionalità nonché,
in casi estremi, per il risarcimento del danno subito.
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